Ecologia Socialista

ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI

 

Karl Marx - Friedrich ENGELS

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Elementi per un'ecologia socialista

 

"Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo: quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate." (Karl Marx)

 

 

 

 

 

Capitolo 1

 

 Crisi ecologica, scienza e strategie ambientaliste

 

 

 

 

 

1.1. la questione dell’unificazione delle lotte e delle conoscenze

Il buco nell’ozono, l’effetto serra, la deforestazione, lo sconvolgimento idrogeologico e la desertificazione cui sono soggette vaste aree, sono soltanto una parziale rappresentazione della degenerazione ambientale e della tremenda crisi ecologica che interessa il pianeta. Sono la conseguenza diretta della pressione antropica sull’ambiente naturale e la testimonianza evidente, per la complessità delle questioni sollevate, di come la crisi ecologica sia una questione aperta di tipo multidisciplinare, che coinvolge, cioè, competenze tecniche differenti e consapevolezze precise, in grado di misurare gli eventi disarmanti di crescita del degrado ambientale dando ad essi risposte concrete.

Gli interventi per un rientro dalla crisi ecologica, fondati sulle metodologie di un corretto approccio scientifico multidisciplinare se con crescente evidenza non sono più rinviabili, trovano nella loro applicazione una moltitudine di ostacoli ideologici. E tra questi l'insopportabile edonismo dei troppi studiosi della questione ambientale - o presunti tali -, più coinvolti nella competizione tra le varie discipline scientifiche, alla ricerca di un ruolo di scienza regina per la propria, che in un serio percorso di unificazione delle conoscenze. Un atteggiamento così inqualificabilmente ottuso da lasciare poco spazio all'idea di una presunta buona fede di certi scienziati e certo più realisticamente vicino a dare un'idea di un'"ottusità" ben finanziata. Di converso, la lettura del disastro ambientale non può permettersi le inconsistenze delle ipotesi atomistiche di separazione netta tra modo di produzione, ambiente, società, economia, politica, cosa peraltro già chiara da molto tempo prima che la crisi ecologica del pianeta si venisse a trovare così prossima al suo punto di non ritorno: "Noi conosciamo un’unica scienza, la scienza della storia. La storia può essere considerata da due lati, distinta nella storia della natura e nella scienza degli uomini. Tuttavia i due lati non possono essere separati: finché esistono gli uomini e la storia della natura, la cosiddetta scienza naturale e la storia degli uomini si condizionano a vicenda". (Marx ed Engels).

Coordinare le discipline, all'interno di un corretto rigore metodologico e scientifico, è allora una condizione necessaria per unificare le conoscenze e per potere, sulla base di queste, elaborare le strategie efficaci ad affrontare le questioni aperte. Ma questo non è certo ancora sufficiente. Difatti, in presenza di un modo di produzione che determina sia la crisi ecologica, sia la forma della sovrastruttura, altra condizione necessaria va ricercata nel lavoro organizzativo per far nascere, crescere e radicare il movimento unitario in grado di trasferire la dialettica scientifica in determinazione politica.

La costruzione di un movimento che riunisca, in un insieme comune di obiettivi strategici ferrei, l'arcipelago ambientalista, il movimento operaio, internazionalista ed antimilitarista, rappresenta uno dei problemi forse meno sentiti dall’insieme dei soggetti in campo. Ma la mancata articolazione di questo nuovo soggetto unitario è una delle cause principali delle troppe tendenze al collateralismo e della ricerca esasperata di compatibilità e convergenze con interessi diversi dagli obiettivi da conseguire.

La questione dell’iperspecializzazione, sia dei responsabili della sovrastruttura, sia di coloro i quali - almeno sulla carta - si oppongono alle loro scelte politiche, ha creato e crea infatti conflitti in ambiti asfittici e codificati di compatibilità, sempre più distanti dalla ricerca delle necessarie discontinuità e delle dinamiche di scontro tra progetti e modi di concepire il sistema nel suo complesso. La dimensione parcellizata della lotta ambientalista, permanendo le attuali condizioni, lungi dall'avere la dimensione del conflitto sociale, si è cristallizzata nell’apologia della via legislativa e nella ricerca di sistemi di prezzi funzionali alla gestione economico-mercantile del degrado ambientale, in definitiva occultando i nodi centrali della crisi. Ed è proprio questa incapacità di cogliere gli aspetti salienti della questione che riduce la vertenza a mera elencazione di richieste da sottoporre al vaglio degli stessi protagonisti del disastro ecologico affinché concedano l’elemosina di interventi che prendano corpo dalle stesse dinamiche politiche ed economiche responsabili del sistematico saccheggio dell’ambiente e del territorio. In altre parole, l’estremismo infantile ha lasciato il posto al più decadente dei cretinismi parlamentari.

Consacrazione dell’abbassamento degli orizzonti sono state le "grandi" Conferenze sull’ambiente di Rio e in Giappone dove si sono potute misurare le condizioni di arretramento culturale, probabilmente senza precedenti, che suonano come un pericolosissimo campanello d’allarme per ciò che in futuro sarà determinante per le battaglie ambientaliste. Per queste manifestazioni - e probabilmente per quelle che seguiranno - è possibile un’unica valutazione effettivamente e ragionevolmente condivisibile: la sanzione della loro spaventosa inutilità, del loro vuoto materiale; la presa di coscienza definitiva e senza appello dell’essenza di "Re nudo" dei responsabili della sovrastruttura, vittime inconsapevoli della loro stessa mediocrità, intrisa di miserabili appetiti mercantili e depravazioni affaristiche. I governi da "tavolo", si riuniscono, scandendo i loro slogan inverosimili, solo, quindi, per zittire l’allarmistico, spregiudicato, impudente ed assillante gracchiare di "cornacchie" neo-Cassandre "illiberali" che, "senza alcun ritegno", si ostinano a definire la natura di "finitezza" della terra.

Al peggiorare costante della situazione si viaggia grottescamente da un "festival" all’altro, contabilizzando sui registri di cassa degli stati i costi di gestione del danno ambientale, e sviscerando risoluzioni finali, ricche di "buoni propositi", cui soltanto un demente può dar credito: risoluzioni che sono talvolta riuscite a far rabbrividire persino i "guru" superideologizzati dell’ultima frontiera sviluppista, i fautori dello "sviluppo sostenibile".

 

1.2. Origine storica della crisi ecologica e strategie ambientaliste.

Partendo da un assunto essenziale, si può dire che la questione ambientale si sia manifestata in misura di drammaticità crescente, sin dall’abbandono della nicchia ecologica da parte dei primi uomini che iniziarono lo sfruttamento dell’ambiente, alla ricerca della liberazione dallo stato di necessità. Come afferma Engels: "I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso nella civiltà era un passo avanti verso la libertà". Il progresso è ovviamente tutt’altro che compiuto e le contraddizioni sociali, politiche, economiche ed ambientali, mostrando continuamente tutta la loro spaventosa virulenza, sono lontane dall’essere risolte, al di là della stessa volontà degli uomini e delle donne. Donne e uomini, è vero, "fanno la storia benché non in condizioni di loro propria scelta" (Marx), spinti dalla necessità di liberarsi dal bisogno, scatenando una serie complessa di avvenimenti incontrollabili con cui la sovrastruttura democratico-borghese non è più in grado di relazionarsi.

Ma se l’origine storica del disastro ambientale è ben evidente, è però venuta meno la capacità di lettura delle linee di tendenza storico-evolutive delle società umane e dell’evoluzione dell’uomo come specie dotata di una propria struttura biologica, non avulsa cioè dal contesto ambientale, con cui interagisce come un qualsiasi fattore ecologico. Ed altrettanto si sono disintegrate le elaborazioni strategiche e la definizione del luogo fisico e dei soggetti di coordinamento delle lotte.

La questione ambientale, come già detto, non è un elemento scisso da altri fattori di crisi, ma anzi si lega ad essi tanto da divenire una parte soltanto di una crisi e di una tal sistema di contraddizioni la cui origine è unicamente riconducibile al modo con cui, negli ultimi duecento anni, è stato imbrigliato l’insieme delle forze produttive. Quindi, saranno necessariamente i soggetti maggiormente interessati alla contraddizione esplosa nei sistemi economici mercantili, gli sfruttati del pianeta, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo, ad avere il compito storico di concentrare le proprie lotte intorno ad un progetto strategico di cui una parte essenziale è rappresentata dalla questione ambientale.

 

1.3. Il quadro politico-evolutivo dentro le linee di tendenza.

Il crollo dei sistemi politici dell’Europa dell’Est non coincide certo con il crollo del "muro", ma con il precedente fallimento di un’esperienza che, iniziata in modo esaltante con la Rivoluzione d’Ottobre, ha visto il non concretizzarsi del processo di transizione, il fallimento del passaggio dalla nazionalizzazione alla socializzazione dei mezzi di produzione, la mancata trasformazione della struttura e della sovrastruttura e, in definitiva, la tendenziale trasformazione del gruppo dirigente in gruppo dominante con caratteristiche borghesi. Fattori come la mancata penetrazione del processo rivoluzionario in occidente ed altri ancora da comprendere ed analizzare, hanno fatto il resto. D’altro canto, anche se sommersi da responsabilità pesanti, questi sistemi hanno consentito ad organizzazioni e partiti occidentali di godere di un punto di riferimento definito, anche se osservato criticamente. In assenza di tutto questo, i partiti comunisti occidentali hanno continuato a perdere una propria identità antagonista, accettando di mediare con le istituzioni borghesi dei propri paesi e di partecipare a governi di matrice fortemente classista. I partiti comunisti e, più in generale quelli della sinistra storica, mostrano tutto il fiato corto delle loro politiche neo-riformiste ed una selvaggia destrutturazione organizzativa che ne determina una condizione di coincidenza con un gruppo dirigente autoreferenziale. Hanno perso la capacità di sintesi, di trasferimento della dialettica sociale ai livelli più alti, ma accettano passivamente gli unici livelli di scontro concessi dalle forze borghesi. Hanno smesso da tempo di preoccuparsi di radicamento sociale sul territorio, di formare quadri militanti e dirigenti e hanno progressivamente perduto la capacità di unificare e guidare le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori.

La crisi dei grandi movimenti di massa, determinata dall’incapacità di ricomporre le contraddizioni al proprio interno, prima ancora che da cause esterne, ha indebolito unilateralmente il fronte antagonista anche per ciò che concerne la sua capacità di proposizione strategica.

La società nel suo complesso, dunque, in presenza di questi elementi, è stata privata di punti di riferimento culturali chiari e definibili, venendo intrisa di idealismi borghesi e di analfabetismi di ritorno. Per tutti gli anni ’80 e ’90 la condizione è stata questa. In questo contesto degradato, la borghesia ha gioco facile nell’imporre la propria tattica del dividi et impera, che contrappone le lavoratrici ed i lavoratori agli ambientalisti, gli uomini e le donne della città a quelli della campagna, le maggioranze sociali, politiche, culturali ed etniche alle minoranze, il Nord del mondo al Sud.

Non si può però non valutare come le controffensive capitalistiche abbiano perduto efficacia e risolutezza, anche in assenza di un antagonismo sociale consistente. "D’altra parte il sistema capitalistico mondiale, se ha vinto qualche battaglia sul socialismo, è penetrato in una crisi senza ritorno, perché, proprio come dicevano Marx ed Engels, i suoi rapporti di produzione frenano lo sviluppo delle forze produttive. Senza contare che di quello che una volta si definiva ‘campo socialista’ sono rimasti in Asia, Africa e America Latina dei paesi che, seppur con un processo contraddittorio e con fasi di ripiegamento, esprimono ancora oggettivamente un ostacolo all’espansione dell’imperialismo" (Giuseppe Amata, Socialismo come formazione sociale. CUECM, Catania 1991). Se a questo aggiungiamo che, oltre a stati con organizzazioni strutturali e sovrastrutturali con forti contraddizioni interne ma ancora dotati di elementi - anche se spesso soltanto residuali - di socialismo, in alcuni paesi del Sud del mondo, pur in presenza di enormi difficoltà teoriche ed organizzative, comincia a riformarsi quel livello di conflittualità sociale intorno al quale si può ipotizzare di far ripartire le lotte e l’analisi internazionalista. Tuttavia questi elementi positivi di ripresa della conflittualità, non sembrano avere un loro corrispettivo nei paesi occidentali dove, comunque, per quanto concerne la crisi ecologica, sembra accresciuta - paradossalmente nel momento più basso delle dinamiche internazionaliste - la consapevolezza collettiva di una crisi complessiva del sistema.

La questione ambientale può quindi essere l’elemento da cui ripartire per aggregare e rilanciare il movimento reale che modifichi lo stato di cose preesistente e per creare, ad ogni passo avanti in questa direzione, la "situazione" perché non si ritorni indietro.

 

1.4. La crisi del capitale. Pensare localmente ed agire globalmente.

Il modo di produzione capitalistico è in una crisi senza ritorno. Marx aveva evidenziato che in esso esistono tre condizioni di produzione, le "condizioni fisiche esterne", la "forza lavoro", e "le condizioni comunitarie". La prima di queste tre condizioni riguarda specificamente gli elementi naturali che entrano nel sistema produttivo, allocandosi sia nell’ambito del capitale costante, sia in quello variabile. "Oggi, le 'condizioni fisiche esterne' emergono sotto forma di variabilità degli ecosistemi, adeguatezza dei livelli atmosferici di ozono, stabilità delle linee costiere e degli spartiacqua; qualità del suolo, dell’aria e dell’acqua; e così via. La 'forza lavoro' emerge sotto forma di benessere fisico e mentale dei lavoratori; tipo e livello di socializzazione; tossicità dei rapporti di lavoro e capacità dei lavoratori a farvi fronte; di lavoratori come 'esseri umani' e cioé intesi quali forze sociali produttive e organismi biologici in genere. Le 'condizioni comunitarie' emergono sotto forma di 'capitale sociale', infrastrutture e cose simili". (James O’Connor, L’ecomarxismo, Datanews, Roma 1989). Se anche uno solo di questi elementi entra in crisi - e complessivamente lo sono tutti - entra in crisi il sistema produttivo mercantile.

La capacità della borghesia di gestire ancora la contraddizione, seppure ridotta, rimane forte, quindi, solo per l’inconsistenza dei suoi avversari, incapaci di cogliere il senso profondo di alleanze a tutto campo con le altre forze sociali antagoniste e rinchiusi nella consuetudine borghese di confrontarsi con le questioni in ordine sparso.

In questo quadro l’agire localmente ed il pensare globalmente divengono fattori indispensabili per l’agire politico dei movimenti antagonisti, per strappare un’egemonia culturale a quei gruppi che fondano la propria identità su principi generici e superficiali, mutuati da soggetti politici borghesi con concezioni economiche mercantili.

l’"agire localmente" diviene essenziale, perché attraverso questa pratica di lotta, non soltanto si ottengono nell'immediato risultati che possono migliorare la qualità della vita, ma si innesca quel processo di formazione sociale e politica del quale non si può ulteriormente fare a meno. Ogni azione locale, nel rispetto delle prerogative dei "luoghi", non può però essere scissa da un "pensare globalmente" che ridefinisce e chiarisce il quadro internazionale che produce i suoi effetti anche localmente.

 

1.5. L’internazionalizzazione delle lotte ambientaliste.

Ripartire dall’internazionalismo diviene un'ipotesi irrinunciabile perché, come dice Gramsci, "lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è ‘nazionale’ ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali".

Trasferendo questo ragionamento sul piano della sfida ambientalista, la struttura ecologica del pianeta è forse l’elemento che più di qualsiasi altro si presta ad un’analisi globale. Non esistono in natura ecosistemi chiusi, e questa definizione, quando viene data, ha solo ed esclusivamente validità didattica. Ciò che avviene in un ecosistema lontano da noi ci riguarda in prima persona almeno quanto ciò che avviene sotto casa nostra. Se cioé la Foresta Amazzonica viene estirpata, bruciata e distrutta per far posto a strade, pascoli, città o per ricavare legna e altre materie prime, se il deserto africano avanza rapidamente a causa dell’uso estensivo della monocoltura che inaridisce il suolo fertile, o, ancora, se una petroliera scarica petrolio nel Pacifico in seguito ad un incidente, tutto questo, che ci piaccia o no, avrà un effetto, anche se a lungo termine, sul nostro vissuto quotidiano. I rapporti tra gli ecosistemi sono infatti assolutamente inscindibili, ad esempio, perché hanno effetti sul clima o perchè l'impoverimento del suolo fertile nel Sud del mondo produce vasti flussi migratori umani. Ma il punto non sta semplicemente nell’occuparsi che non si distrugga una foresta da qualche parte del mondo, ma piuttosto nell’avere una visione globale del problema che ci consenta, anche a livello locale, di interagire con le questioni aperte da altre parti.

Paradossalmente la questione ambientale sta divenendo oggi centrale più nei paesi del Sud del mondo che non in quelli occidentali industrializzati che, sulla spinta dell’opinione pubblica, si stanno faticosamente e lentamente attrezzando per limitare l’impatto ambientale di fabbriche inquinanti. In primo luogo, trasferendo attività produttive dannose per l’ambiente nei paesi del Sud del mondo dove, oltre a trovare una scarsa resistenza nell’installazione degli impianti industriali - interpretati come un’occasione per colmare il gap di sviluppo con i paesi più ricchi - è facile reperire manodopera a basso costo e materie prime. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura ha quindi, oggi, una sua ubicazione preferenziale nei paesi del Sud del mondo anche per l’accondiscendente complicità di borghesie locali e regimi militari subalterni all’occidente. Non che non vi siano condizioni di marginalizzazione e sfruttamento in occidente, ma le sacche di povertà crescente nei paesi industrializzati hanno la stessa origine di quelli del Sud del mondo. Quindi, mentre al Nord vi sono sempre più poveri, nel Sud i poveri di ieri diventano ancor più poveri, non soltanto perché non dispongono ancora dei fattori di soddisfacimento dei loro bisogni essenziali (medicine, vestiti, acqua, cibo, istruzione...) ma anche perché, per sopperire a queste carenze, sono costretti a saccheggiare la natura, cioé a consumare la loro risorsa primaria.

Su scala mondiale sono in pericolo i beni collettivi, gli oceani, i ghiacciai, le foreste. Chi, nell’immediato, paga le conseguenze di questo degrado sono le popolazioni che risiedono in questi ambienti che, spinte dalla necessità, contribuiscono alla loro devastazione. In un quadro di sofferenza generalizzata si inseriscono così elementi di ulteriore ricatto, cinicamente sfruttati dalle grandi imprese multinazionali.

Riprendere e rilanciare le battaglie ambientaliste in una dimensione internazionalista nuova ed in relazione diretta con le altre forze sociali ed antagoniste vuol dire, quindi, occuparsi della povertà, della fame, della sete, dell’analfabetismo dei popoli del Sud; vuol dire occuparsi di preservare la loro diversità culturale che aveva consentito un rapporto organico ed equilibrato di millenni con l’ambiente; vuol dire promuovere iniziative di lotta contro lo sfruttamento di questi popoli e perché, nell’immediato, le merci di provenienza extranazionale abbiano un valore sociale aggiunto che sia a tutela dei diritti di chi le lavora e dell’ambiente in cui vive; vuol dire, nel lungo periodo, mettere in campo strategie internazionaliste per ribaltare i rapporti di forza a livello mondiale e per determinare un’inversione di rotta nel processo.

 

1.6. Le lotte ambientaliste, lotte di classe.

Sono le lavoratrici e i lavoratori ad avere il compito di modificare i rapporti di produzione e liberare le forze produttive nella direzione storicamente predeterminata del soddisfacimento dei bisogni collettivi. Ma è necessaria l’acquisizione della consapevolezza del loro ruolo di attori protagonisti dei rapporti di produzione, cui deve seguire l’innalzamento del livello di scontro con lo spostamento delle contraddizioni sistemiche sul tavolo della borghesia e su un piano più alto. Tale consapevolezza può nascere innanzitutto dalla comprensione che il proprio lavoro è funzionale, così come si realizza, alla produzione energivora di merci, all'interno di un modello di sviluppo dotato della capacità intrinseca di creare consumatori attraverso processi violenti di mercificazione del linguaggio. Questo aspetto della crisi è quindi determinato da due fattori che così possono essere espressi in sintesi:

a) "La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo, 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo; allo stesso modo, il consumo produce la disposizione del produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo della produzione". (K. Marx)

b) Il linguaggio diviene merce, una merce assolutamente insostituibile per il dominio di classe della borghesia perché è capace di modificare l’atteggiamento delle masse nei confronti delle altre merci. "Ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno per costringerlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi alla rovina economica" (Marx, dal III dei Manoscritti economico-filosofici). Tutto, nell’economia mercantile, è finalizzato ad un unico scopo, che è quello di produrre qualcosa da vendere, anche se assolutamente inutile, ed anzi, come scrive Marx nel Capitale, "Uno dei progressi della produzione civilizzata consiste che gli oggetti di prima utilità si scambino in maggiore proporzione contro oggetti d’una utilità minore". Persino il richiamo cattolico alla ripresa della crescita demografica, il "crescete e moltiplicatevi", può essere interpretato come un invito alle donne a mettere al mondo consumatori. La maternità diventa, cioè, un processo produttivo, particolarissimo, se vogliamo, perché tiene in vita il mercato, rinfoltendo anche la folta schiera dei "reietti" dell'armata industriale di riserva da cui prelevare manodopera a basso costo.

La questione ambientale attraversa trasversalmente le classi ma è evidente la sua matrice classista. Le lotte ambientaliste hanno quindi una dimensione di classe, e relazionarsi con esse ha il significato di rimettere in discussione i rapporti di produzione a partire dal significato stesso di questione ambientale. Gli apologeti dell’ideologia neoclassica hanno invece spostato il problema, dal modo storico con cui si sono realizzati i rapporti di produzione, alla finitezza delle risorse, introducendo il concetto di scarsità ed i relativi palliativi legati all’uso di un sistema di prezzi che fosse da argine alla natura "finibile" della terra. Questa posizione ideologica, che trova radici e consacrazioni nel pensiero di Malthus (vedi capitolo 2 Lo sviluppo sostenibile, ideologia borghese), ha finito per divenire egemone ed inquinare il piano delle lotte ambientaliste, cui ha sottratto ampi spazi di analisi.

 

1.7. La centralità della scienza; i nuovi idealismi.

Non può essere trascurato che alla base del modo di produzione capitalistico, da cui è generata la drammaticità della questione ambientale, vi è l’uso irrazionale di tecnologie mutuate dall’evoluzione scientifica. In questa prospettiva appare quanto mai evidente come un movimento ambientalista possa generarsi solo dalla riacquisizione di una prassi in cui divenga centrale lo studio e la conoscenza delle scienze ed in particolare delle scienze naturali. Ogni ipotesi conflittuale nella direzione del ribaltamento dei rapporti di forza è destinata a naufragare se non si comprende, ad esempio, che alla base dei protocolli di ingegneria genetica vi è la trasformazione del substrato della materia vivente e quindi una modificazione delle materie prime, non soltanto con ricadute devastanti sull’ambiente, ma anche con una pesante ristratificazione delle classi sociali.

Riappropriarsi del pensiero scientifico diviene, quindi, il passo fondamentale per dare risposte alla questione ambientale ed a tutte le altre forme di crisi collegate con il modo di produzione ad organizzazione mercantile. Nell’attuale fase le difficoltà in questo senso divengono terribili. Gli stessi protagonisti della degenerazione capitalistica, la borghesia che soggioga ed opprime le forze produttive per esaudire i propri interessi d’accumulazione, posta dinnanzi alle laceranti contraddizioni che essa stessa ha generato, incapace della loro gestione, elabora contromisure di tipo idealista, scivolamenti mistici, e l’ipotesi dell’"ineluttabilità" della crisi. Un disegno concretizzato nel ricorso sistematico al nuovo misticismo, nell’estraniarsi dalle "faccende" materiali di pezzi consistenti della popolazione e nell’utilizzo spregiudicato di strumenti di puro idealismo. L’inebetimento sociale diffuso rende libera la borghesia di continuare a perpetuare il saccheggio delle teorie scientifiche che, dall’abbandono delle concezioni aristoteliche, nutrono il modo di produzione capitalistico. L’obiettivo malcelato è razionalmente quello di mantenere alto il livello dello sfruttamento creando falsi anticorpi di natura idealistica e morale, incancreniti dall’evolversi vertiginoso della situazione. La contraddizione scatenata dall’uso opportunistico dell’evoluzione tecnologica ed il pragmatismo individualista, persino perverso, con cui il mercato fagocita le nuove scoperte scientifiche, mostrano i tratti paranoidi del Capitano Achab che, nel Moby Dick di Melville, espone così la propria teoria: "I miei scopi sono assolutamente insani, ma i miei metodi per raggiungerli sono razionali".

Dinnanzi al degrado, la società borghese non ha trovato di meglio che introdurre l’etica per mitigare gli effetti imprevedibili dell’imbrigliamento delle forze produttive. E come filiazione della scienza della morale ha coniato il termine "bioetica" la cui applicazione diventa dogma, religione, ideologia, perversione immutabile ed eterna, dinnanzi ad una società che invece si evolve a velocità vertiginosa sotto la spinta delle nuove acquisizioni scientifiche.

 

1.8. Riconquistare spazi al materialismo scientifico.

Quali allora gli strumenti di cui si avverte la necessità? Quelli della scienza sono adeguati, oppure anch’essi devono essere sottoposti ad una seria critica materialista che ne qualifichi l’essenza?

Che la scienza sia in grado di fornire strumenti oggettivi per la valutazione della realtà è fuor di dubbio. Ogni conquista scientifica rappresenta una parte di verità che si aggiunge alle conoscenze umane. Una verità che può essere considerata più o meno parziale, ma che rimane pur sempre una verità.

L’approccio nei confronti della scienza si presenta spesso secondo due modelli diametralmente opposti. Il primo, il cosiddetto "scientismo", spinge a considerare la scienza più che come entità in perenne movimento, come una struttura a sua volta dogmatica, in grado di risolvere per sua stessa natura ogni questione aperta. La scienza in questo caso si trasforma in "chiesa", senza tener conto di un elemento fondamentale e cioè il rapidissimo evolversi della realtà anche sotto spinte di natura soggettiva, individualistica - come è nel caso del modo di produzione capitalistico -, mistica ed idealistica. Non vi è dubbio che con questo approccio vengano colti elementi di oggettività, senza di essi, d’altro canto, non vi sarebbe una realtà da studiare e conoscere. Ma ciò che viene descritto dalla scienza degli "scientisti" come oggettivo contiene elementi di soggettività che non vengono tenuti in considerazione come tali. In questa accezione la scienza diviene inadeguata a mostrare ed a spiegare la complessità.

All’altro capo vi è un’altro modo di approcciarsi alla scienza che parte dal presupposto che le degenerazioni politiche, sociali, economiche ed in genere le contraddizioni della società capitalistica e le crisi aperte, sono il frutto dell’evoluzione scientifica, per cui la scienza, lungi dall’essere lo strumento per superare l’attuale stato di cose, ne è essa stessa la causa ed occorre quindi riavvicinarsi alla natura in forme mistiche ed idealistiche, rifiutando lo strumento dell’indagine scientifica. Si determina, cioè, uno scivolamento di tipo "romantico" che è quello che, oggi, condiziona maggiormente gli ambientalisti.

In realtà entrambe le forme divengono - in modo diverso, certamente - idealismo, rifiuto di una dialettica materialista ed incapacità, in un senso o nell’altro, di un approccio oggettivo critico nei confronti anche delle conquiste scientifiche. Si pone, in altre parole, il problema di comprendere cosa occorre studiare e perché, non per indirizzare la sperimentazione scientifica o castrare la creatività indispensabile allo scienziato, ma piuttosto per eliminare le discontinuità che il mercato ha prodotto tra scienziati e lavoratori, fagocitando, imbrigliando e sottomettendo la ricerca scientifica nella direzione dell’incremento del semplice tasso di accumulazione, producendo quelle stesse contraddizioni che la società borghese non è più in grado di gestire.

"Mi pare giusto insistere sulla necessità di orientare la nostra attività culturale nel senso di integrare, al nostro pensiero dialettico, le acquisiszioni della scienza (...) non è neppure giusto che noi si lasci giacere senza sfruttarla una miniera di conferma del pensiero materialista dialettico quale è potenzialmente il pensiero scientifico nel suo perenne accrescimento e approfondimento. In questo campo, noi siamo ancora fermi alla Dialettica della natura di Engels (...) Ma dopo Engels, chi ha cercato di applicare il medesimo metodo di studio al territorio di una nuova conquista, di cui tutte le scienze da allora ci hanno arricchito? Esistono gli appassionati a questo ordine di cose: ma i loro sforzi non sono pianificati o collegati. Ne risulta la diffusione di una concezione banalmente utilitaria del progresso scientifico (...) Queste persone, nella misura in cui ammirano le acquisizioni del progresso scientifico, partecipano ad una visione del mondo che, se pure non ha - ma poi ce li ha! - oggi dei teorici ufficiali, tuttavia si diffonde capillarmente, e può venir riconosciuta in alcuni suoi lineamenti fondamentali, che vanno con diverse accentuazioni, dal materialismo volgare, al pragmatismo utilitaristico, al sociologismo, alla certezza che i problemi umani si potranno risolvere tutti con il progresso tecnico ed il produttivismo, e magari con il controllo delle nascite. E ci si ricollega quindi ad una pseudo ideologia tecnocratica, tipica di certi strati piccoli-medi borghesi. Il prestigio della superiorità economica americana poi contribuisce a diffondere questo "modernismo" in cui la mancanza di un sistema di pensiero è addirittura sistematica. Non si creda che questa mentalità (non vogliamo dire "questo pensiero") sia immune dai rischi di un possibile occasionale ritorno allo spiritualismo cristiano, e magari nelle forme di un vero e proprio misticismo! Ed in realtà la cosa non è strana. In realtà quel materialismo volgare, quel pragmatismo, quel sociologismo, quell’ingenua fiducia nell’onnipresenza della tecnica esauriscono affatto tutta la problematica della vita. Anche la persona colta se ne sente in fondo insoddisfatta: sente che, oltre "i complessi", l’igiene o il produttivismo dev’esserci pure "qualcosa d’altro". Ed a questa domanda può cercare risposta nella fede religiosa. E anche se tra il caotico bagaglio delle diverse "selezioni" tecnico-scientifiche e la fede religiosa c’è uno iato di pensiero, un vero e proprio salto di incongruità, non importa: è caratteristica comunemente accettata, nell’atto di fede, proprio questo "salto", questa accettazione anche dell’assurdo, anche dell’incoerenza inspiegabile". (Cfr. Laura Conti, in Rinascita-Contemporaneo, n. 16, 1956). Tuttavia non si può non considerare il diverso concetto di scienza in una società di classi in cui essa assume necessariamente valore diverso soggettivo, pur riferendosi a realtà oggettive. La scienza emerge cioé dal contesto storico e sociale che la genera e che a sua volta ne è generato.

Nella concezione socialistica delle società borghesi la scienza acquista peso economico, ma anche quello della costruzione della molteplicità delle funzioni paradigmatiche di formazione sociale e politica. Ha peso economico perché assume per se l’obiettivo di formare conoscenze oggettive sulla natura, allo scopo di massimizzare e rendere efficiente il prelievo di risorse, sottomettendo la natura stessa ai principi mercantili. L’indagine scientifica politica e sociale si rivolge piuttosto alla conoscenza del rapporto tra gli uomini nella direzione della comprensione dei livelli di aggregazione, per attingere alla risorsa forza lavoro. In entrambi i casi la scienza, nella sua accezione borghese della società di classe, diviene strumento di dominio per amplificare l’efficienza dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Gli operatori della scienza, non sono quindi "liberi" ma i loro obiettivi sono definiti, ed eventualmente ri-definiti, dai loro "datori di lavoro", che ne indirizzano la sperimentazione in una direzione che non è quella del soddisfacimento dei bisogni collettivi, ma piuttosto quella del soddisfacimento di volontà individuali ed opportunistiche. Il metodo scientifico, il suo rapporto con la conoscenza della natura, non è quindi soltanto il risultato delle lotte di classe nella società, ma diviene esso stesso terreno di scontro di classe. La categoria dell’alienazione è parte integrante dei processi produttivi scientifici e ne riguarda gli operatori proprio come - e forse anche più per le dimensioni del plus-valore che scaturisce dalle risultanze della ricerca scientifica - il proletariato. In questo senso, la separazione schizzofrenica che si è determinata tra movimento operaio, intellettuali e scienza, ha prodotto la frantumazione sistematica del fronte che doveva e poteva occuparsi direttamente, come elemento per far sopravvivere una dinamica conflittuale tra le classi, delle lotte ambientaliste e in tutti gli altri ambiti di disfacimento della società borghese.

Questo tanto più si manifesta in un paese capitalista, ma anche in un paese socialistico in cui il processo di transizione non era stato completato, soffrendo le fasi di alterne di frenate e ripiegamenti, qualcuno riteneva utile sottolineare la necessità di un rapporto più stretto tra scienziati e popolazione. "Il compito fondamentale della scienza sovietica è quello di mettere nelle mani dei lavoratori un potente strumento di progresso culturale, spirituale e materiale. Per questo è necessario che ogni studioso, fin dai primi passi della sua attività scientifica, ricordi costantemente quali sono gli scopi che si prefigge la nostra scienza. Ma può accadere che questo scopo sia dimenticato; e purtroppo accade spesso. Lo scienziato, distaccato dal mondo esterno, nel suo laboratorio o nel suo studio, può cominciare a vedere uno scopo nel suo stesso lavoro. Il distacco dalla vita è il pericolo più grande per lo scienziato.

Egli, più di ogni altro lavoratore deve avere coscienza delle esigenze del paese e del popolo. Egli deve ricordare che, qui da noi, il distacco dello scienziato dalla vita ha lo stesso valore di una morte prematura. Viceversa, il pegno del successo della sua attività sta nel sentire il pulsare della vita che lo circonda. Allora creerà coerentemente a vantaggio del paese e troverà nel paese tutto quanto è necessario per dare pieno slancio al suo lavoro.

Non bisogna intendere questa utilità a favore del paese come un angusto pragmatismo scientifico; non bisogna cioé pensare che ogni conquista scientifica possa immediatamente trasformarsi in un ritrovato o in un processo che comporti un certo risparmio di certi mezzi. Questo rapporto immediato naturalmente è uno dei più semplici sistemi per mettere in connessione la scienza con la vita.

Ma questo legame può essere più prezioso e profondo. Una grande scoperta scientifica, che apre nuove prospettive, che permette una nuova comprensione dei fenomeni naturali, anche se non porta immediatamente ad una sua utilizzazione pratica può nei modi più svariati esercitare un’eccezionale e multiforme influenza sulla nostra cultura sia materiale che spirituale; questa influenza spesso non è riducibile ad un rozzo apprezzamento numerico. Le opere di Darwin sull’origine della specie sono preziose non tanto perché ci aiutano a creare bestiame di razza, ma perché ci hanno permesso di approfondire le nostre conoscenze sulla teoria dell’evoluzione ed hanno fornito potenti strumenti a coloro che si battono per la cultura progressiva" (P. L. Kapitsa, La scienza come impresa mondiale, Editori Riuniti, Roma 1979).

 

Capitolo 2

 

 

Sviluppo sostenibile, ideologia borghese

 

 

 

 

2.1. Origine delle ipotesi di sviluppo sostenibile.

La crisi ecologica, è divenuta elemento di controverse valutazioni soltanto a partire dalla crisi petrolifera degli anni ’70, allorché fu possibile cogliere inequivocabilmente - qualora ve ne fosse realmente bisogno - i limiti di alimentazione a spese delle risorse naturali del modo di produzione capitalistico, non in grado di consentirsi un’autonoma rigenerazione. Prima di allora era opinione diffusa, anche nell’immaginario collettivo, che il concetto di "finitezza" della terra fosse intrinsecamente legato solo allo scontro atomico tra le due superpotenze, evenienza non scartabile e di cui si ammetteva l’irreversibilità della soluzione finale.

La dura realtà dell’esplosione di una contraddizione così forte nel cuore stesso del sistema, ha indotto le forze borghesi ad ipotizzare una rimodulazione dello sviluppo - come era stato del resto necessario fare in altre fasi storiche -, su di un substrato teorico di tutela per il mercato che riuscisse a garantirne l’autoriproduzione in un rapporto con l’ambiente naturale. L’idea centrale di questo sforzo teorico si fondava comunque sullo "sviluppo", cioé sulla crescita "a prescindere".

La definizione di "sviluppo sostenibile" fece rapidamente il giro del mondo sul finire degli anni '80, giungendo in Italia non proprio come un fulmine a ciel sereno ma come risultato di una linea di tendenza già tracciata da diverso tempo e che aveva il suo manifesto nel lavoro del Club di Roma I limiti dello sviluppo. Veicolo del messaggio, in questo caso, fu il lavoro della World Commission Environment and Development, Our common future, Ginevra, 27 aprile 1987, tradotto in italiano con il titolo Il futuro di noi tutti. Rapporto della Commissione per l’ambiente e lo sviluppo, Bompiani, Milano 1988. L’elemento nuovo in questo lavoro, era dato dalla definizione di "sostenibilità" dello sviluppo che ne identificava la natura nella capacità di garantire il soddisfacimento dei bisogni delle attuali generazioni, in modo da rendere disponibili per le generazioni future, risorse e condizioni tali da soddisfare i propri. In contrapposizione, per "insostenibilità", in termini ecologici, si indicherebbe quindi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali non rinnovabili (petrolio, minerali ecc.), determinandone un esaurimento in tempi brevi, ed una sottrazione talmente rapida di quelle rinnovabili (foreste, risorse idriche, suolo coltivato ecc.) dall’ambiente, così da superarne la capacità rigenerativa.

In presenza di un incremento demografico nella misura di 80 milioni di nuovi abitanti sul pianeta in un solo anno, si sarebbe realizzata una crescita, in definitiva, insostenibile, sia per i suoi aspetti ecologici, sia perché potenzialmente ritenuta capace di scatenare guerre tra stati per l’accaparramento delle risorse residue e flussi migratori massicci ed incontrollabili. D’altro canto, la crescita esponenziale della popolazione mondiale era già un dato acquisito da tempo. "Il terzo quarto del XX secolo ha assistito a una radicale trasformazione delle tendenze demografiche via via che il tasso di mortalità globale scendeva decisamente, mentre rimaneva alto il tasso di natalità. Durante i primi quindici secoli dell’era cristiana la popolazione mondiale aumentava dal 2 al 5% per secolo. Prima della seconda guerra mondiale erano pochi i paesi che avevano mai sperimentato un tasso di aumento naturale superiore all’1% all’anno. Oggi in alcuni paesi il tasso è compreso fra il 3 e il 4% all’anno, valore molto vicino al massimo biologico.

La crescita demografica al ritmo verificatosi dopo la seconda guerra mondiale è così recente che non abbiamo ancora avuto il tempo sufficiente per valutarne le conseguenze Occorre richiamare qui la legge della crescita esponenziale e la variazione delle conseguenze a lungo termine di tassi anche relativamente modesti di crescita della popolazione. Una popolazione che aumenti dell’1% all’anno aumenta del 270% in un secolo. Una popolazione che aumenta del 3% all’anno aumenta del 1900% in un secolo.

Il grande rischio è che l’umanità non riesca a prevenire le conseguenze della continua e rapida crescita di popolazione abbastanza presto per dominarla prima che si verifichi una catastrofe globale di qualche tipo. Anche chi è esperto in matematica spesso non arriva a valutare appieno la meccanica dei tassi di crescita esponenziale". (Lester R. Brown, Nell’interesse dell’umanità. I limiti della popolazione mondiale. Una strategia per contenere la crescita demografica. Biblioteca della Est Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori. Milano 1974).

 

2.2. Teorie sui limiti dello sviluppo; l’egoismo borghese di Malthus.

Il concetto di "sviluppo sostenibile" trova legittimazione nella dimensione non "illimitata" delle risorse, cui corrisponde un aumento vertiginoso della popolazione. Storicamente il problema inizia a porsi non appena i primi uomini rinunciarono al nomadismo, divenendo stanziali e confrontandosi, come condizione per questa nuova scelta, con i limiti di rigenerazione naturali del territorio presso cui si stabilivano. Secondo Malthus, la limitata disponibilità di risorse naturali, la cui riproducibilità avveniva secondo un andamento aritmetico, cui corrispondono i ritmi geometrici di crescita della popolazione, pone la questione dell’esistenza di una "scarsità assoluta" delle risorse naturali (anche se riproducibili, come vegetali commestibili, animali d’allevamento, suolo fertile ecc.), indicate come variabili indipendenti, cui si contrappone la variabile dipendente rappresentata dall’incremento demografico.

La posizione di Malthus, tuttavia, non aveva neanche in origine una sua ragione ecologica, ma era tutta all’interno delle paure borghesi di ritrovarsi defraudati da altre classi sociali di quello che avevano strappato a monarchi e nobili. Se i poveri fossero aumentati troppo, avrebbero finito per accaparrarsi, nell’eterna lotta per la sopravvivenza, le risorse necessarie al mantenimento del benessere della borghesia. Quindi, per Malthus, si poneva la necessità di porre un freno all’incremento demografico, in particolare quello che riguardava i poveri.

Il diverso clima culturale della metà dell’800, in qualche modo, aveva determinato una critica feroce a Malthus ed all’egoismo borghese incarnato nel suo pensiero. Le conclusioni non intaccavano però la validità dei concetti biologici espressi da Malthus che furono anzi ulteriormente avvalorati da quelli di Justus von Liebig con la sua "legge del minimo". Per Liebig in un sistema ecologico i processi vitali vengono irrimediabilmente interrotti dalla mancanza di anche uno solo dei fattori essenziali per il loro mantenimento. Anche Darwin trae spunto dalle nozioni apprese da Malthus per evidenziare il ruolo della disponibilità delle risorse nel contesto evoluzionistico. "(...) la lotta per l’esistenza fra tutti i viventi ed in tutto il mondo, scaturisce necessariamente dalla loro elevata capacità di moltiplicarsi in ragione geometrica. E’ questa la dottrina di Malthus applicata all’intero regno animale e vegetale. Gli individui di ciascuna specie, che nascono, sono molto più numerosi di quanti ne possano sopravvivere e quindi la lotta per l’esistenza si ripete di frequente" (Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale)

Ciò che comincia a delinearsi nelle convinzioni di molti è che l’equlibrio ecologico risponda a determinate leggi, prime fra tutte quella della capacità di carico e quella del minimo che, se valgono per i sistemi naturali, sono validi anche per i sistemi sociali ed economici che con l’ambiente hanno un rapporto di interscambio costante.

Se si considerano popolazioni umane primitive, dedite alla raccolta ed alla caccia con strumenti molto approssimativi, la capacità di riproducibilità di un territorio è funzione del tempo di stazionamento della comunità antropica. Tale riproducibilità è anche funzione delle risorse, che rappresentano la variabile indipendente, all’esaurimento delle quali gli uomini dovevano spostarsi, vivendo, quindi, una condizione nomade. Il territorio abbandonato aveva la possibilità di rigenerarsi in modo naturale, in quanto lo stile di vita nomade degli uomini poteva depauperarlo considerevolmente ma molto raramente ne intaccava la resilienza, cioè la capacità dell’ambiente di riprodurre le condizioni originarie. Per un dato territorio, anche molto vasto, che rimane stabile nella sua estensione, e per un gruppo umano primitivo, nel quale predomina l’evoluzione esclusivamente genetica e quindi il mantenimento di una ben precisa nicchia ecologica, le leggi di Malthus possono essere considerate valide. Tali leggi sono ancora valide quando ci si riferisce a società precapitalistiche, in cui non si pratica più la semplice raccolta ma forme più avanzate di nomadismo, come la pastorizia nomade e l’agricoltura estensiva itinerante. Anche per i membri di queste società era infatti impensabile ipotizzare di poter rimanere più a lungo di un certo periodo in una data area senza incorrere nella limitatezza delle risorse naturali. Abbandonata l’area, il ripristino delle condizioni di naturalità, ed il suo successivo ed eventuale ripopolamento, erano affidate interamente ad elementi naturali che potevano fare il loro corso in tempi relativamente brevi.

Non appena l’incremento della popolazione e la limitata disponibilità di aree nuove impediva che si realizzasse una rotazione delle colture, con pause nello sfruttamento del suolo sufficientemente lunghe per il ripristino di condizioni idonee alla realizzazione di un buon livello di vita (maggese), le comunità umane abbandonarono il nomadismo per divenire stanziali. Sempre per Malthus, a questo punto, l’incremento demografico, in quanto variabile dipendente, si sarebbe dovuto arrestare. Così non è stato. In realtà il passaggio dal nomadismo alla stanzialità fu reso possibile da un’evoluzione nelle tecniche di coltivazione sempre più rapida.

 

2.3. Le critiche a Malthus; la pressione antropica sull’ambiente.

A mettere in relazione l’incremento demografico con l’evoluzione delle tecniche agricole è E. Boserup, che ritiene, a differenza di Malthus, che l’aumento della popolazione produca uno sfruttamento delle risorse più razionale ed un incremento di produttività del suolo. In altre parole, secondo Boserup, una condizione di crisi stimolava l’introduzione di nuovi strumenti tecnici sempre più sofisticati, producendo un incremento della produzione di beni di sussistenza delle donne e degli uomini, che seguiva l’andamento esponenziale dell’incremento demografico, talvolta superandolo. Il valore eccedente il prodotto che la comunità era in grado di smaltire, offriva la possibilità di creare nuove attività, come il commercio e la trasformazione. La visione ottimistica di Boserup, propone che l’incremento demografico produca di conseguenza anche un corrispondente incremento della produttività.

Sulla spinta delle nuove tecnologie, l’ambiente inizia a subire un processo di trasformazione importante, per consentire che un dato territorio aumenti la sua capacità di carico in risposta al notevole incremento demografico ed alle esigenze di miglioramento della qualità della vita. Molte specie animali e vegetali vengono semplicemente allontanate o direttamente distrutte dall’azione dell’uomo sugli ecosistemi attraverso due tipi principali di intervento:

a) azione diretta sulle specie, attraverso la caccia e la raccolta di vegetali commestibili a scopo alimentare, per ricavarne materia prima per la costruzione di utensili e manufatti sempre più perfezionati (avorio, ossa, pelli) e per proteggere le coltivazioni e gli allevamenti (abbattimento di animali erbivori, predatori carnivori, eliminazione di specie vegetali parassite di quelle commestibili o in competizione con queste);

b) azione indiretta, attraverso modificazioni radicali dell’ecosistema, come con il disboscamento, opere di canalizzazione e di deviazione del corso dei fiumi a scopi irrigui, costruzione di abitazioni, stalle, luoghi di stoccaggio per le derrate, opere di estrazione della pietra e di metalli.

Queste trasformazioni fisiche e biologiche delle realtà ambientali determinano a loro volta alcuni modelli di reazione naturale: la fuga degli animali dai luoghi a forte antropizzazione, in cui non si realizzano più le condizioni naturali idonee alla sopravvivenza della specie; la moltiplicazione spropositata di alcune specie animali e vegetali per la soppressione o l’allontanamento del predatore naturale; nel lungo periodo il manifestarsi di mutazioni genetiche che codificano per caratteri che rendono idoneo il permanere di specie animali e vegetali in ambienti non più naturali.

Le società sottoposte ad un rapido incremento demografico, divengono estremamente complesse e l’ottimismo di E. Boserup finisce col non essere più sufficiente a spiegare le trasformazioni rapidissime in atto. In particolare, la promessa di migliori condizioni di vita, spinge molta parte delle popolazioni delle campagne a concentrarsi nelle città a più alta industrializzazione, abbandonando le colture e provocando, come conseguenza, un degrado delle campagne. Quelle aree ancora coltivate vengono sempre più meccanizzate con due effetti principali: la riduzione drastica della manodopera bracciantile; la concorrenza devastante dei grandi proprietari terrieri che, in possesso di risorse economiche per introdurre tecnologie di meccanizzazione spinta delle colture e degli allevamenti, avrebbero determinato il rapido declino delle economie agricole a conduzione familiare. Le megalopoli crescono a dismisura attorno ai poli industriali e ad ogni possibile fluttuazione verso l’alto dei salari degli operai, coincide un adeguamento tecnologico che riduce la manodopera con un aumento esponenziale del plusvalore per unità di tempo lavorata ed un incremento conseguenziale, a parità di ore lavorate, dei tassi di profitto, di accumulazione e di sfruttamento. Gli operai licenziati, in seguito all’introduzione di nuove tecnologie, andranno a costituire l’armata industriale di riserva che popolerà le grandi periferie urbane e suburbane, vivendo una condizione di povertà disperata.

Marx, valuta positivamente l’incremento demografico nelle società primitive perché questo corrisponde all’abbandono dello stile di vita tribale, ad una riorganizzazione sociale ed alla suddivisione dei compiti e del lavoro, ma poi, consapevole dei limiti di una crescita smisurata del modo di produzione capitalistico, pose l’accento sulla necessità di un riequilibrio città-campagna e di uno più complessivo alternativo agli obiettivi dalla società industriale capitalista: "Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo (...) - e prima di ringraziare in nota Liebig per i suoi meriti immortali Marx continua - Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità" (XIII cap. IV sez., I Libro del Capitale). Marx introduce quindi elementi di forte critica verso le ipotesi di sviluppo illimitato della società borghese, tanto più discutibili quanto più finalizzate alla produzione di merci, come già sottolineato, spesso inutili al soddisfacimento di bisogni sociali e collettivi.

 

2.4. Le società stazionarie.

Il concetto di una società stazionaria o che, comunque, non si ponesse come unico obiettivo la crescita "a tutti i costi", veniva presentato come necessità oggettiva da Mill nel 1848. Secondo Mill la società deve rimanere stazionaria, non può, cioè, crescere oltre un certo limite di popolazione, così come i beni materiali vanno distribuiti in modo equo per impedire una loro crescita eccessiva che di fatto metterebbe a rischio gli equilibri sociali. Una società come quella industriale, era per Mill, un modello organizzativo che non poteva durare così com’era. "Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze e di popolazioni farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. E’ superfluo osservare che una condizione stazionaria di capitale e di popolazione non implica uno stato stazionario di miglioramenti umani. Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo". (John Stuart Mill, Principi di economia politica con alcune delle sue applicazioni alla filosofia sociale). Mill pone, quindi, il problema di quale "crescita", individuando fattori possibili di sviluppo estranei all’ideologia borghese dell’accumulazione, e non quantificabili monetaristicamente.

In questo contesto di critiche, sia alla crescita monetaristica, sia alle concezioni borghesi malthusiane, Marx ed Engels, nel Manifesto, affermano: "Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo: quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate." In poche righe Marx ed Engels pongono, con rara capacità di sintesi, la necessità di ricondurre al proprio valore fondamentale le variabili temporali sottolineando la vera essenza del concetto di sfruttamento. Introducono, quindi, un elemento centrale della questione, quello delle forze produttive, non ipotizzandone una distruzione assoluta in seguito alla violenza luddista, ma stimolando la ricerca di una separazione della tecnologia - e quindi della scienza - dal potere economico, perché possa assolvere al compito storicamente attribuitole di soddisfacimento dei bisogni sociali, consentendo un ridimensionamento della produzione di merci che non siano strettamente necessarie. Gli economisti capitalisti, considerano invece un bene l’incremento del tasso di accumulazione e valuteranno come conseguenza della ineluttabilità delle leggi naturali della "scarsità assoluta delle risorse" (Malthus), il peggioramento complessivo delle condizioni di vita. Le ineluttabili leggi naturali vengono quindi contrapposte alle leggi storiche che regolano i modi di produzione. Si riscopre in modo ideologico e fazioso una presunta validità delle teorie malthusiane, soprattutto da parte di quegli economisti che si rifanno al modello Neoclassico, con la sua natura atomistica e meccanicistica. Il modello del liberismo neoclassico è infatti atomistico perché considera disgiunti tutti gli elementi del ciclo produttivo inteso in senso allargato. Risorse naturali, materie prime, forza lavoro, tecnologia, capitale, merci, domanda, offerta, scarti e rifiuti di produzione, vengono cioè interpretati come fattori del tutto indipendenti gli uni dagli altri. Questa visione contrasta in modo decisivo con l’evidenza di un rapporto intrinseco tra le attività umane ed il livello di trasformazione dell’ambiente, il grado di interdipendenza tra bioma e biotopo come elemento fondamentale nel mantenimento della condizione di equilibrio degli ecosistemi, la inelasticità dell’offerta (Keynes), e lo sviluppo tecnologico che è funzione delle mutate condizioni sociali, economiche e, non ultime, politiche e sovrastrutturali. Ma la natura meccanicistica dell’ipotesi neoclassica è altrettanto irrazionale ed inaccettabile perché non esiste possibilità alcuna di consentire una reversibilità del processo produttivo. "... l’uomo non può ne creare ne distruggere materia o energia. Questa però è solo una metà della storia, la metà raccontata dalla meccanica, modello prediletto dalla maggior parte degli studiosi di scienze sociali: le risorse naturali, però, non sono costituite da sola materia e sola energia, ma da materia organizzata in strutture ben precise, e da energia disponibile. La materia-energia che costituisce le risorse naturali è qualitativamente diversa da quella che forma lo scarto: quella delle risorse naturali è organizzata secondo schemi ordinati o, come dicono i fisici, ha bassa entropia: negli scarti troviamo solo disordine, cioè alta entropia. E non è tutto: la seconda legge della termodinamica ci dice che tutto l’universo è soggetto a una degradazione qualitativa continua: l’entropia aumenta, e tale aumento è irreversibile. Di conseguenza, le risorse naturali possono attraversare il processo economico solo una volta: lo scarto rimane irreversibilmente uno scarto" (N. Georgescu-Roegen). L’introduzione dell’elemento entropico, cioè della misura del disordine secondo la Termodinamica, risulta decisiva nello smantellare le teorizzazione neoclassiche circa la possibilità che un semplice sistema di prezzi, estranei alla contabilità ecologica (fondata sugli equilibri e non sulla crescita come nei sistemi economici mercantili), possa riequilibrare le situazioni di "crisi" nelle società a capitalismo avanzato. Una società fondata sulle regole dell’economia mercantile, e quindi sulle logiche di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, può essere gestita soltanto attraverso strumenti coercitivi di natura sia fisica che ideologica.

 

2.5. La scarsità delle risorse.

Di tanto in tanto il dibattito che contrappone società stazionaria e sviluppismo rientra in gioco come in una sorta di fenomeno carsico, sino alle ultimissime elaborazioni sullo sviluppo sostenibile di cui si è fatto cenno e che, di fatto, riproducono il modello capitalistico di crescita, limitandosi ad introdurre alcuni correttivi di tipo ecologico. In questo momento, tuttavia, occorre chiedersi se un livello organizzativo sociale, politico ed economico mercantile può sopportare una crescita illimitata. Ciò che è opportuno fare è qualificare le risorse necessarie ai processi produttivi per comprendere, in ultima analisi, come sia possibile applicare a queste il concetto di sviluppo sostenibile. Dobbiamo innanzitutto fare una distinzione tra risorse permanenti e risorse non permanenti. Si definiscono risorse permanenti quelle risorse che non diminuiscono nel tempo nonostante vengano utilizzate per le attività umane. Il prelievo di una risorsa permanente può avvenire in eterno, di essa ve ne sarà sempre disponibilità, di conseguenza non sarà mai il fattore limitante né di un processo economico né di uno ecologico. Tra queste possiamo annoverare l’energia solare, quella eolica, delle maree... Le risorse non-permanenti invece non sono sottoponibili ad un prelievo indiscrimnato perché rischierebbero di esaurirsi e per esse vale la "legge del minimo" di Liebig. Le risorse non-permanenti possono essere suddivise in non-permanenti riproducibili e non riproducibili. Le prime sono quelle che l’ambiente naturale può riprodurre durante processi di rigenerazione (foreste, fertilità del suolo, risorse ittiche); le altre sono quelle su cui si è incentrato maggiormente il dibattito in quanto elementi potenziali di crisi sia del sistema economico, sia di quello ecologico (le miniere, i combustibili fossili, fauna e flora in via di estinzione). Riferito alle risorse, il concetto di scarsità individua la loro disponibilità in rapporto al consumo previsto che se ne farà in un determinato arco di tempo, anche considerando alcune variabili, non quantificabili ma prevedibili, come la tendenza dei processi produttivi alla dematerializzazione, le migliorate condizioni di prospezione mineraria, la possibilità che una merce ottenuta con determinate materie prime possa essere soppiantata da altre prodotte con materie prime più comuni, l’ottimizzazione degli impianti... Di particolare importanza sono i processi di dematerializzazione delle merci. La tecnologia informatica ed in genere tutte le innovazioni tecnologiche, hanno consentito di risparmiare molto sui materiali: se confrontassimo un’automobile di vent’anni fa con una di categoria simile di oggi, ci accorgeremmo dell’enorme differenza di peso; se poi pensiamo che fino a qualche anno addietro occorrevano migliaia di tonnellate di cavi telefonici per telefonare dall’altra parte dell’oceano ed oggi, invece, è sufficiente un satellite del peso poco superiore ai due quintali, ci rendiamo conto di come tra gli sviluppisti si sia complessivamente diffuso un certo ottimismo nel voler considerare praticabile un’ipotesi di crescita secondo le leggi del mercato, al riparo cioé dai vincoli posti dagli elementi naturali. In questa valutazione ottimistica, alcuni dei fattori di cui non si tiene assolutamente conto sono la limitatezza delle risorse alimentari e il già sottolineato fattore entropico, aspetti che verranno dettagliati in seguito in questo stesso lavoro.

 

2.6. Le ambiguità dello sviluppo sostenibile.

Una delle cose più chiare in questo contesto è la non chiarezza del termine sviluppo, che non rappresenta un principio strategico o un programma attuativo, ma piuttosto un modo di pensare. Pensare lo sviluppo è possibile attraverso la conoscenza, la cui detenzione è esclusivamente nelle mani del potere. Il dibattito sullo sviluppo, comunque si voglia interpretarlo, ha, cioé, precisi attori sociali procedendo ad escludendum degli altri. Gli "altri" sono di converso i non-detentori del potere, le classi sociali non-borghesi ed i popoli dei P.V.S. che non hanno libero accesso nè ai luoghi deputati alla decisione, nè, tantomeno, alla conoscenza. Una delle cose che però colpisce maggiormente del concetto di "sviluppo", è la sua capacità storica di inglobare illimitatamente, prospettandone una soluzione, tutto ciò che di volta in volta viene ad essere indicato come "il problema". In passato questa operazione ha dimostrato tutto il suo valore mistificante, il suo vuoto siderale. La crisi delle campagne, il peggioramento complessivo delle condizioni di vita dei contadini, avevano messo in moto le ipotesi sviluppiste che si sono concretizzate, nei primi anni ’70, con l’elaborazione delle strategie di "sviluppo rurale". E’ utile ricordare che da quelle teorizzazioni lo squilibrio città-campagna si è accresciuto enormemente, soprattutto perché per "sviluppo rurale" si concepì il trasferimento tout court del modo di produzione urbano nelle campagne. Prima di allora comunque si era discusso di "sviluppo sociale", poi miseramente naufragato nelle concezioni riformiste del "welfare state", di "sviluppo uguale", ecc. In presenza di eventi drammatici ed anticipatori di catastrofi inaudite, gli sviluppisti tirano fuori dal loro cilindro magico, un nuovo concetto, lo "sviluppo sostenibile", la cui consacrazione definitiva è avvenuta a Rio nel 1992. In altre parole si riproduce un’operazione già fatta: al manifestarsi di un peggioramento complessivo delle condizioni in un campo, se ne definisce quello come limite e si rielabora la strategia sviluppista per superare l’empasse. Il suo continuo rincorrersi, il suo mostrarsi contemporaneamente come causa del male e terapia, è anche la causa del suo definitivo naufragio. Ma questo aspetto della questione, a quanto pare, non è così semplice da cogliere se ormai non c’è ambientalista che non si ponga come obiettivo primario della sua pratica la rincorsa allo "sviluppo sostenibile" o, per i palati più fini ed esigenti che affollano i salotti dell’ambientalismo, allo "sviluppo eco-compatibile". Già il termine sviluppo presenta in sé elementi di acuta perversione perché identifica l’ineluttabilità della crescita economica ovvero ribadisce il dogma borghese crescita=benessere che ha caratterizzato le teorizzazioni meccanicistiche neo-classiche. Ribaltando i termini della questione e spostando l’attenzione dai rapporti di produzione alla sostenibilità del mercato, gli sviluppisti tendono ad accettare che l’unica contabilità utile sia quella mercantile, come emerge da Enzo Tiezzi (Il capitombolo di Ulisse, Idee/Feltrinelli, Milano 1991): "riconvesrione ecologica dell’economia significa allora: aggiustare i prezzi sulla base dei costi globali e a lungo termine, includendo l’incertezza (...)". Il significato che si coglie è preciso ed inquietante al tempo stesso, sia perché è quello che sembra aver trovato maggiore consenso nell’arcipelago ambientalista, sia perché, ancora una volta, pone una correlazione tra contabilità economica e contabilità ecologica, subordinando la seconda ad esigenze evidenti di mercato.

 

2.7. le differenze tra sistemi economici e sistemi ecologici.

I sistemi economici e quelli ecologici coincidono per il prodotto: entrambi infatti mirano alla produzione, di merci, gli uni, di biomassa, gli altri. Gli obiettivi sono invero estremamente differenti: nei sistemi economici l’obiettivo è la crescita quantificata con parametri teorici e virtuali di carattere monetario; in quelli ecologici è invece l’equilibrio verificabile in parametri materiali concreti come l’inquinamento, la biodiversità, la resistenza, la resilienza ecc., non quantificabili secondo sistemi monetaristici. Ciò che si cela dietro questa richiesta di contabilizzazione monetaria del degrado ambientale, è subdolamente necessario al mercato per almeno due motivi: scaricare la tensione dell’opinione pubblica; creare nuovi campi d’investimento, anche perché qualunque sprovveduto è in grado di comprendere che i costi aggiuntivi della cosiddetta tutela delle generazioni future, nascondono la volontà di far pagare ai consumatori il costo di scelte popolari ma in ambito mercantile ovviamente svantaggiose. E’ quanto accade negli Stati Uniti d’America dove il BOD (biological oxigen demand) cioè uno dei parametri con cui si misurano gli effetti dell’inquinamento, viene suddiviso in obbligazioni che le industrie possono acquistare per poter svolgere attività inquinanti. Quindi, pagando, si può continuare ad inquinare, scaricando i costi aggiuntivi sui consumatori, e consentendo a chi ha più soldi di poter inquinare di più godendo della possibilità di rifarsi dell’investimento ricavandone anche un buon ritorno d’immagine - e quindi maggiori vendite, maggiore produzione, maggiore fatturato e maggiore inquinamento - perché vngono rispettate le norme sull’inquinamento. Le stesse normative della Comunità Europea in materia di Valutazione d’Impatto Ambientale (V.I.A.) tengono esclusivamente conto dei fattori quantificabili monetariamente per dare l’assenso ad un insediamento antropico su un’area. Il problema di cosa si produce, perché si produce e per chi si produce non tocca minimamente gli interessi della gran parte degli eco-economisti, troppo presi a far quadrare i conti ed a trovare criteri monetaristici per quantificare il danno ambientale. "Così, oggi, dire sviluppo sostenibile, senza mettere in discussione i rapporti di produzione che generano un modello di sviluppo fondato su un distorto rapporto città/campagna, non significa nulla.

Ogni formazione economico-sociale, infatti, ha i suoi limiti nello sviluppo, che sono determinati dai rapporti di produzione; conseguentemente, lo sviluppo quantitativo, dentro la formazione economico-sociale crea o le condizioni del suo superamento oppure il caos, il disordine, l’inquinamento, insomma l’entropia, come flusso, superiore alla negaentropia". (Giuseppe Amata, Lo sviluppo perverso CUECM, Catania 1992).

 

2.8. Antropocentrismo e utilitarismo nello "sviluppo sostenibile" .

In definitiva lo "scatolo vuoto" dello sviluppo finisce per inglobare la sfida ambientalista, quindi, poi si spiega come sia possibile che chi era stato segretario di una delle più grandi associazioni ambientaliste italiane, possa divenire, successivamente, il presidente dell’ENEL, svolgendo il suo incarico in assolutà continuità con le amministrazioni precedenti.

Anche volendo attribuire un significato aperto allo "sviluppo sostenibile", la sua definizione ne rafforza l’immagine antropocentrica, ponendosi l’obiettivo di trasferire anche alle generazioni future l’utilitarismo umano. Dal punto di vista strategico quest’impostazione spiazza prima e quindi taglia fuori dall’arcipelago ambientalista le correnti naturaliste. La natura, le sue risorse, assumono precipuamente il carattere di variabili per consentire la crescita, giammai elementi da salvaguardare a prescindere. Parole d’ordine come "l’oasi motore dello sviluppo" o "il parco come occasione di crescita", sono divenute slogan insostituibili di campagne elettorali e di enunciazioni di tristi programmi politici.

Capitolo 3

 

 

Bioetica, biodiversità e la

questione della democrazia

 

 

 

 

3.1. La sovrastruttura democratico-borghese dinnanzi alle sfide della scienza.

Gli sviluppi tecnologici e scientifici, nel campo della medicina, della biologia e della genetica, pongono, con rapidità straordinaria, quesiti inediti alle donne e agli uomini che su questi temi sono chiamati a pronunciarsi ed a decidere. I problemi sul tappeto possono essere articolati in due grandi questioni:

la questione della democrazia, ossia la questione direttamente connessa alla dislocazione dei luoghi dell’evento decisionale ed alla legittimità di un mandato, scaturito in una condizione differente da quella prodotta dallo sviluppo scientifico;

la questione della bioetica, ovvero ciò che concerne la legittimità dello sviluppo scientifico, la sua moralità, applicazione e, di conseguenza, la possibilità di un divieto parziale o assoluto della sperimentazione e dell’applicazione dell’evoluzione scientifica nei campi delle scienze naturali e mediche.

In realtà le molteplici ricadute del progresso scientifico e tecnologico finiscono con l’intersecarsi sino a determinare la totale sovrapposizione dei campi d’azione delle due questioni. Quelli legati alla questione della democrazia, ad esempio, vengono incorporati nel campo bioetico per l’incapacità della sovrastruttura democratico-borghese, con la sua incredibile vaghezza ed i suoi confini difficilmente definibili,.di confrontarsi, sul piano della democrazia, con i possenti sviluppi indotti dalle nuove tecnologie.

Dare risposte esaustive in merito all’ambito proprio della questione della democrazia è decisamente complesso e richiederebbe un dibattito problematico, articolato nelle differenti fasi con cui si sono realizzati i rapporti di produzione e le formule sociali che da questi sono scaturite. Al centro del dibattito vi è sicuramente quella necessità irrevocabile di rompere, verificatane la disastrosa natura fallimentare, la semplicistica linearità culturale delle impostazioni ideologiche borghesi. Il conseguimento di questo obiettivo primario parte, quindi, dalla riacquisizione degli strumenti di analisi propri del materialismo storico e dialettico, con l’obiettivo - da sviluppare - di contrapporre alle stantie ed inefficienti istituzioni democratico-borghesi, modelli sociali e di aggregazione in cui sia massima la partecipazione decisionale delle donne e degli uomini alle dinamiche evolutive della scienza e della tecnica.

 

3.2. La questione della democrazia.

La struttura delle istituzioni non è neutrale, libera da condizionamenti, indipendente, ma deriva in modo diretto, sia dalla natura delle forze produttive temporaneamente attribuite ai paesi nelle varie fasi della storia umana, sia dal contesto sociale e culturale degli stati in cui si realizzano determinati rapporti di produzione. Non è cioè un elemento astratto, eterno ed immutabile, è invece esattamente il frutto delle condizioni storiche, del rapporto tra forze produttive e modo di produzione. L’oggettiva inadeguatezza delle attuali forme di democrazia pone quindi il problema della costruzione di un’altra democrazia.

Le attuali forme di democrazia rappresentativa sono in effetti mutuate, a partire dal XVII sec. - anche se non necessariamente tout court -, dalle democrazie nobiliari-feudali che dovevano però confrontarsi con ben altri rapporti di produzione rispetto all’oggi. La loro obsolescenza, se da un lato ostacola la liberazione delle forze produttive nella direzione del soddisfacimento di bisogni sociali e collettivi, dall’altro deriva direttamente dall’azione frenante, quando addirittura non regredente, esercitata dalle forze capitalistiche per imbrigliarne l’evoluzione positiva fuori degli attuali confini asfittici. Nel contempo occorre aver ben chiaro il concetto che l’affermazione di nuove forze produttive necessita dell’azzeramento della precedente sovrastruttura.

Il fattore frenante forse più violento e coercitivo, esercitato dalla borghesia a tutela dei propri modelli sovrastrutturali, è l’introduzione di elementi culturali diffusi e radicati che impongono di considerare come coincidenti, la democrazia e le sue forme realizzative burocratiche, amministrative, elettorali, istituzionali, partitiche ed organizzative in genere. Il risultato dello spostamento del problema è che non si coglie completamente la natura di necessità - oggettiva - della democrazia. Tale natura si realizza in forme e modi differenti non codificati all’interno di progetti assoluti ma in relazione al particolare contesto storico. Propio per la sua natura materiale la democrazia non ammetterebbe di delegare un proprio compito fondamentale ad una escrescenza ectoplasmica del suo apparato. "L’apparato centralizzato dello stato che, con le sue strutture militari, burocratiche, ecclesiastiche e giudiziarie onnipresenti e complicate, rinchiude il corpo vivente della società civile come un boa constrictor, fu forgiato per la prima volta nell’epoca della monarchia assoluta come arma della moderna società borghese in sviluppo nella sua lotta di emancipazione dal feudalesimo. I privilegi feudali dei signori, della città e del clero del medioevo vennero trasformati in attributi di un singolo potere statale, che sostituì i dignitari feudali con funzionari statali stipendiati e tolse le armi ai servitori medioevali dei signori feudali e delle corporazioni urbane per darle ad un esercito permanente; l’anarchia variamente colorata dei poteri medioevali in conflitto tra loro venne sostituita dall’ordinato programma di una autorità statale, con una sistematica e gerarchica divisione del lavoro. (...) Ogni minore interesse particolare prodotto dalla interrelazioni fra gruppi sociali, è stato separato dalla società stessa, fissato, reso indipendente da essa e ad essa posto in contrapposizione, in nome dell’interesse dello stato, amministrato dai sacerdoti dello stato con funzioni gerarchiche precisamente determinate. (...) Tutte le rivoluzioni hanno solo perfezionato la macchina statale, invece di rovesciare quest’incubo soffocante. Le fazioni e i partiti delle classi dominanti che alternativamente hanno lottato per la supremazia, hanno considerato il possesso e la direzione di questo immenso apparato di governo come il bottino principale della vittoria. La loro attività era rivoltà fondamentalmente alla creazione di immensi eserciti permanenti, di una schiera di parassiti di stato e di un’enorme debito pubblico. (...) Il potere del governo, con il suo esercito permanente, la sua burocrazia onnipotente, il suo clero abbrutente e il potere giudiziario ad esso asservito, era divenuto così indipendente dalla società stessa che (...) non appariva più come uno strumento della dominazione di classe, sottoposto ad un ministero parlamentare o ad una assemblea legislativa. Umiliava sotto il suo dominio perfino gli interessi delle classi dominanti, di cui sostituiva la parodia parlamentare con dei corpi legislativi che eleggeva direttamente e con senatori che esso stesso pagava; sanciva la sua assoluta autorità con suffragio universale e con la necessità riconosciuta di mantenere l’"ordine", e cioé il dominio del proprietario fondiario e del capitalista sul produttore; nascondeva, sotto i randelli di una mascherata del passato, le orge di corruzione del presente e la vittoria della parte parassitaria degli strozzini finanziari. (...) A prima vista sembrava che fosse la vittoria finale del potere del governo sulla società, mentre era in realtà l’orgia di tutti gli elementi corrotti di questa società". (Karl Marx, Il carattere della Comune)

 

3.3. La questione della bioetica.

La bioetica diventa quindi il contenitore ideale per le questioni irrisolte o irrisisolvibili che, in quanto contraddizioni all’interno dello stesso sistema, finiscono per essere scaricate su un piano più basso e ad un livello in cui i valori e i significati sono comunque non oggettivi. Le istituzioni, cioè i luoghi delle decisioni vincolanti, si chiamano fuori dalla questione perché hanno individuato una dinamica di scontro su un piano in cui appare prepotentemente la necessità di introdurre elementi di limitazione all'espansione del capitale in settori strategici. D'altro canto non è neanche ipotizzabile la reintroduzione di modelli quali lo "stato etico". Venendo costituiti come strutture del tutto prive di potere vincolante, e comunque come ectoplasma inerme di sovrastrutture autoritarie, comitati e commissioni bioetiche si configurano perciò come lo strumento perverso attraverso il quale si impedisce una partecipazione allargata al processo decisionale, nel merito dell’evoluzione scientifico-tecnologica. Il termine "bioetica", poi, è a sua volta, debole anche nella sua essenza. Addirittura contraddittorio se sottoposto ad un’analisi esegetica, perché ci riferisce della natura "oggettiva" delle questioni legate alla vita ed alla morte, attribuendo ad esse le proprietà del tutto convenzionali e idealiste della scienza della morale. La struttura voluta per la bioetica è inefficace, per la sua natura dogmatica, nel dare risposte a situazioni a cui non è possibile applicare principi immutabili, proprio per la spaventosa rapidità con cui si trasformano.

Le condizioni nuove, create dall’evoluzione scientifica in campo medico e biologico, impongono invece riflessioni rigorose sui tre temi della "responsabilità verso le generazioni future", dell’"ecologia", del "consenso informato". L’ultimo di questi temi può essere ricondotto nella più complessa e generale questione della democrazia, configurandosi come una forma specifica della partecipazione al processo decisionale nell’ambito della sovrastruttura. La responsabilità verso le generazioni future inerisce invece una valutazione attenta e prudente sugli effetti a lungo termine, ancorché positivi nelle condizioni attuali, dell’applicazione di nuove e rivoluzionarie metodologie in campo medico e biologico. Pone, cioè, la necessità di ripensare il rapporto uomo-natura, ossia l’intero processo di produzione e ri-produzione, all’interno di un quadro gestionale organico, superando gli attuali limiti settoriali e le specializzazioni proprie della sovrastruttura borghese. "La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati" (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica, relazione al VI Congresso dell’Internazionale Situazionista tenutosi ad Anversa dal 12 al 15 novembre del 1962, cit. Casa Editrice Nautilus, Torino 1993).

Il realizzarsi di una centralità dell’ecologia, infine, spezza il monopolio di una visione antropocentrica, riconducendo ad un ruolo organico quei fattori biologici, chimici e fisici esterni all’uomo, sino ad oggi strumentalmente ridotti ad elementi marginali.

Ciò che necessita di un’indagine, è, quindi, il complesso rapporto tra uomo e natura, rileggendo in esso le relazioni vita-morte. La scienza medica e quella biologica si muovono in questa direzione modificando questo rapporto.

Donne e uomini, sottoposti alle più strane "bizzarrie" della natura, dalle malformazioni genetiche a quelle acquisite, dalle modificazioni cliniche di natura patologica a quelle di origine violenta, vengono schiacciati e mortificati nel confronto quotidiano con la natura, in ciò che riguarda la loro singola esistenza, la loro vita. Storicamente si è realizzato inevitabilmente l’annichilimento e la sottomissione alle "forze oscure della natura", misticizzate e esorcizzate e fatte oggetto dell’attribuzione di un valore divino e di un carattere metafisico che ne impediva un interpretazione razionale. E’ stato il livello complessivo di arretramento della ricerca scientifica in campo medico che ha imposto questa interpretazione della patologia, ricercando la sua giustificazione teorica - ed in termini psicologici la sua sublimazione - nella teoretica cristianea. La necessità evolutiva degli uomini e delle donne di razionalizzare anche in mancanza di elementi conoscitivi sufficienti, ha finito per ricondurre tutto all’interno delle dinamiche caratteriali di un dio, ora irato, ora generoso. La rottura del rapporto bidirezionale uomo-natura, con l’introduzione di questi elementi di misticismo, ha fornito alle classi dominanti il più potente degli strumenti di coercizione su cui mai abbiano potuto contare per garantirsi di autopepetuarsi. Rivoluzioni fondamentali del pensiero scientifico sono state ostacolate perché riconducevano razionalmente le relazioni vita-morte all’interno del rapporto uomo-natura. Le teorizzazioni ippocratee dei "Mali oscuri", che interpretavano la patologia come un problema esclusivamente legato all’alimentazione ed alla dieta, sono state ostacolate per secoli proprio perché ribadivano il concetto dell’unitarietà tra l’uomo e l’ambiente. Tutto ciò sino a quando le strategie medico-biologiche sono state concepite esclusivamente come semplice difesa dalla patologia. Sino a quando, cioè, nei laboratori non si sono riprodotte le prime elementari molecole organiche, proteine, albumina, al di fuori del puro e semplice accoppiamento sessuale. Sostiene Kapitsa (La scienza come impresa mondiale, Editori Riuniti), che un progresso nel campo della ricerca scientifica ha il pregio, non soltanto di poter essere utilizzato per migliorare la qualità della vita, liberando l’uomo dal bisogno, ma anche di riprodurre condizioni culturali nuove in grado di sostituire quelle vecchie coercitive, ancora infarcite di misticismo e di concezioni idealiste.

La decadenza delle concezioni metafisiche aristoteliche, se ha consentito una più libera espressione del pensiero razionale, ha però determinato la nascita di una nuova sovrastruttura che ha piegato le esigenze della sperimentazione a quelle dell’accumulazione capitalistica e della massimizzazione del profitto.

Le sovrastrutture borghesi, strumenti degli interessi capitalistici, se possono essere legittimate da un determinato livello della conoscenza, vengono delegittimate da quello più alto che sposta ancora in avanti il rapporto uomo-natura. Nasce quindi la duplice esigenza, da parte delle classi dominanti, di autopepetuarsi, impedendo il raggiungimento di quel livello, imbrigliando la ricerca scientifica entro confini angusti e prestabiliti e gestendo la contraddizione attraverso la creazione di una nuova etica specializzata che nega l’unicità del pensiero umano e si pone come strumentale al dominio di classe.

In una data epoca storica il pensiero umano costituisce un tutt’uno con i livelli scientifici raggiunti, che rimandano al rapporto uomo-natura cioé al modo con cui si realizzano le condizioni materiali di esistenza delle donne e degli uomini. Siamo noi che fissiamo i limiti alle trasformazioni che ne conseguono, come sostiene Engels, ma nella realtà tutto passa costantemente l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, aumentando l’instabilità degli ambiti convenzionali imposti dalle classi dominanti a propria tutela. Lacerato dalla contraddizione il sistema studia i propri anticorpi sottomettendo la ricerca scientifica ai propri interessi, definendone l’ambito per gestire le nuove condizioni, salvo, poi, consentirne una valutazione esclusivamente etica o, come si dice in questi casi, bioetica.

 

3.4. La fecondazione assistita nell’ambito della categoria "famiglia".

Tra gli elementi che vengono fagocitati nel coacervo di valutazioni bioetiche e sottoposti al bombardamento incrociato di mondo cattolico, associazionismo e volontà adeguazioniste della sinistra neoriformista, la fecondazione assistita è sicuramente il più gettonato. In realtà l’evoluzione delle scienze mediche in questo campo ha avuto l’effetto devastante, anche per la sovrastruttura, di ragionare, modificandone i meccanismi, sulla riproduzione sessuale nell’uomo come specie. Le nuove tecnologie riproduttive per l’uomo e la donna hanno cioé mutato la prospettiva atavica ed ideologica che teneva insieme in modo inscindibile la riproduzione e l’atto sessuale. In definitiva la nuova condizione posta dalle tecnologie riproduttive rimette in discussione la allocazione stessa della categoria "famiglia" nel contesto della società di classi.

Lo sviluppo della conoscenza nel campo della riproduzione ha consentito non soltanto di intelligere il processo riproduttivo intervenendo su di esso e modificandolo (metodiche anticoncezionali), ma ha anche separato l’atto sessuale dalla necessità di riproduzione della specie. In tal modo lo stesso atto sessuale ha acquistato nuovi contenuti e significati, delinenadosi come atto di libertà tra due soggetti e non più come stretta necessità riproduttiva. Prima di questo il matrimonio veniva "consumato" all’atto del concepimento e la donna "consumava" il suo ruolo con il parto e le cure parentali. Questa concezione culturale aveva una sua espressione giuridica e canonica nella sovrastruttura temporale e religiosa che finivano quasi sempre per coincidere. L’immagine speculare del "consumo" diviene la "sterilità", sia quella per scelta, sia quella patologica, che non trova cittadinanza, ne tanto meno una propria forma di rappresentanza, nella sovrastruttura.

La sperimentazione scientifica nel campo della lotta alla sterilità, si sta realizzando con una rapidità tale da non essere controllabile. Ma questo processo avviene dentro ambiti coercizzati che non consentono una sua libera espressione, finalizzato cioé alla creazione di una merce nuova ed alla frantumazione delle dinamiche di maternità. Il ruolo della donna passa, quindi, da quello di semplice contenitore del feto a strumento di gestione di una fase della procreazione. Ciò che si va delineando è cioè la separazione oggettiva della gestazione da quella della trasmissione dei caratteri ereditari, ruoli che possono tecnicamente essere ricoperti da due donne diverse. Ma ciò che è più inquietante è che a queste due donne se ne può aggiungere una terza nel ruolo di educatrice-madre, qualificando le caratteristiche biologiche delle prime due come merce. La contraddizione della nuova condizione investe e sommerge la sovrastruttura nella sua espressione giuridica, mostrando l’inelasticità e l’inadeguatezza del Diritto Civile. Ma la contraddzione investe soprattutto la famiglia come categoria, mostrandone la sua vera origine materiale e mettendo in crisi la falsificazione mistica del suo ruolo.

La concezione strumentale della famiglia come luogo in cui si realizza solo ed esclusivamente la perpetuazione della specie, ha origini antichissime. Dapprima necessaria, per la particolare natura biologica ed ecologica della specie umana: la ripartizione dei compiti tra la donna, addetta alla procreazione, e l’uomo, che doveva provvedere al proprio sostentamento e a quello della donna nella fase complessa della gravidanza, consentendone un esito vantaggioso per la specie. La famiglia diviene, quindi, in questa fase arcaica, l’esigenza di creare un rapporto stabile tra uomo e donna con l’unico scopo di perpetuare la specie. Successivamente la famiglia è servita a sostenere l’incremento demografico, non in funzione della conservazione della specie, già al sicuro dall’estinzione per il miglioramento complessivo della qualità della vita, ma per sostenere processi produttivi. Un leggero miglioramento delle condizioni di vita porta immediatamente ad un aumento delle famiglie e ad un incremento demografico, con la conseguenza che una contrazione delle possibilità economiche arricchisce l’armata industriale di riserva. Il ruolo della donna come esclusivamente addetta alla riproduzione, viene bestialmente mantenuto dall’ideologia borghese e dalla religione, per mantenere alta la disponibilità di manodopera e quindi ridurre i costi di produzione per unità di tempo lavorata, e per produrre consumatori, quando, in alcuni casi, semplicemente nuove merci (utero in affitto...). Nella concezione mistica di famiglia diviene quindi negativa ed aberrante la possibile sterilità della donna, che blocca il realizzarsi dell’obiettivo ricercato, e si delinea la figura dell’uomo dominante le cui capacità riproduttive non vengono messe in discussione. La sperimentazione scientifica nel campo della riproduzione svela, in altre parole, due elementi di contraddizione profonda: uno generale, e cioé che legare entro ambiti predefiniti e strumentali la ricerca crea comunque situazioni incompatibili con la sovrastruttura realizzata in altra fase che, conseguenzialmente, viene posta in uno stato di fibrillazione parossistica; l’altro, specifico, è che viene rimessa in discussione la categoria di famiglia come luogo unicamente preposto alla procreazione e legittimato come tale nell’ordinamento giuridico e, semmai, anche come luogo in cui si realizza la trasmissione della proprietà. Ristretta in questo ambito la famiglia sconta tutte le contraddizioni di un’entità non liberata nelle posizioni coercitive del diritto canonico che la interpretano, non come atto di scelta libera di due soggetti di vivere in tutto o in parte la propria vita insieme, ma come obbligo di congiungimento sancito dalla fede e quindi irrisolvibile.

L’ambito coercizzato determina in sostanza, che sia la donna, che la natura sono ridotti a puri oggetti del sistema economico e non riacquistano piuttosto un proprio ruolo di soggetti autonomi di diritto.

 

3.5. Il rapporto donna-natura ed il lavoro di ri-produzione.

Allo stato attuale si pone la necessità di ristabilire una relazione tra gli universali del sesso biologico e della natura come fattori "essenziali" dell’esistenza umana e il materialismo storico dell’analisi di classe. Questo afferma che la dimensione collettiva umana è risolvibile socialmente perché determinata da un ambito puramente sociale, all’interno del quale occorre indagare se trovano spazio la condizione fisicamente materiale delle donne e della natura. E’ possibile, cioé, affrontare le questioni poste in termini materialisti, senza tener conto delle donne con la loro struttura biologica e della natura con i limiti che impone allo sviluppo capitalista? E, quindi, esiste un ambito di confronto del tutto peculiare tra donna e natura?

Le strategie ecofemministe radicali hanno posto la questione nei termini dello sfruttamento patriarcale sia della donna, sia della natura, introducendo elementi etici nel lavoro di cura, privilegiando un rapporto emozionale fondato sull’intuizione e sul primato del corpo sulla mente. L’approccio intuitivo ed essenzialista può talvolta produrre radicalismi emozionali come la ricerca della natura in una logica "di divinità femminile", rischiando di vanificare il contenuto fondamentale dell’analisi storica e teoretica dell’ecofemminismo. Riguadagnare quell’analisi e spingerla oltre, nel campo del materialismo storico e dialettico, pone il problema della ridefinizione del lavoro di produzione e di ri-produzione come elementi centrali dell’analisi di classe. Non è verosimilmente possibile, però, scardinare i legami emozionali del lavoro di cura o del rapporto donna-natura, cioé ridisegnare - o cancellare - i temi dell’essenzialismo, per riconquistare questa centralità. Piuttosto è credibile un’analisi che interpreti la natura essenziale dentro il materialismo. La difficoltà "oggettiva" perché questo percorso di interrelazioni tra essenzialismo e materialismo possa essere definito e/o ri-definito non può non tener conto della natura fondamentalmente astorica del fattore sesso/biologia della donna e della natura invece scontatamente storica dei rapporti di produzione.

Lo strapotere degli uomini, sia nelle decisioni di politica di gestione - o di saccheggio - della natura, sia nella violenza militarista, ha fatto nascere radicalismi femministi che pongono la donna in un’ottica di naturale pacifismo e solidarismo che, in un'interpretazione esclusivamente essenzialista, può definire un quadro di trasformazioni sociali come unicamente naturali, estrapolandole dal contesto storico con cui si sono determinati i rapporti di produzione. Tanto più quest’analisi rischia di precipitare nel naturalismo emozionale, quanto più viene rescissa la volontà di riallocare il ruolo della donna all’interno di un’analisi organica al materialismo storico e dialettico. Il lavoro di ricucitura, in questo senso, è enorme, ma non impossibile perché ve ne sono gli elementi. Lo stesso Marx, infatti, individua nei rapporti sociali di produzione (L'Ideologia tedesca) il ruolo centrale della ri-produzione, parlando di "produzione della vita, come frutto sia del lavoro che della procreazione della vita". Quindi, perché i mezzi di produzione possono avere un ruolo nel materialismo storico e non godere dello stesso "privilegio" i mezzi di riproduzione della vita stessa? Se le questioni legate alla sopravvivenza hanno una matrice storica, avendo peraltro determinato i rapporti sociali, il modo con cui queste si realizzano non dipende forse anche dal lavoro di cura e dalla procreazione?. Il capitalismo patriarcale ha separato artatamente queste due concezioni del lavoro, così come non ha mai tenuto conto dei limiti allo sviluppo imposti dagli elementi naturali, per garantirsi uno sfruttamento indiscriminato sia della donna che della natura.

3.6. Evoluzionismo e genetica.

Secondo le teorie di Darwin e Wallace e le successive, conseguite attraverso la sperimentazione scientifica e la ricerca - l’ambiente - inteso come l’integrazione tra il bioma (insieme degli organismi viventi) e il biotopo (substrato inanimato su cui si sviluppa la vita in tutte le sue forme), in un rapporto di dipendenza che si realizza negli interscambi di energia e materia - esercita su individui della stessa specie pressioni selettive (selezione naturale) tali da consentire il permanere nel tempo di quei caratteri fenotipici che meglio si adattano alle condizioni ambientali in un dato momento consentendo la sopravvivenza della specie. Al variare delle condizioni ambientali, le specie che manifestano una maggiore variabilità di caratteri si troveranno, quindi, favorite perché nel proprio ambito vi saranno alcuni individui con manifestazioni fenotipiche più adatte alla nuova situazione. Quanto detto rappresenta - in modo estremamente sintetico e non certamente esaustivo - il fondamento dell’evoluzionismo, le cui spiegazioni biomolecolari si ritrovano in alcune proprietà chimiche del materiale che contiene in sè codificati i caratteri degli esseri viventi, il DNA. Le trasformazioni dell’ambiente agiscono, cioè, da selettori per le sequenze del DNA, scegliendo nel pool genico complessivo di una determinata specie quelle che codificano per i caratteri più idonei alla sopravvivenza - nell’immediato - dell’individuo singolo e - in prospettiva - della specie. Le condizioni ambientali possono mutare in modo naturale - e per centinaia di milioni di anni è stato solo così - influenzando "naturalmente" il pool genico delle specie. Le pressioni antropiche dell’uomo sull’ambiente hanno determinato modificazioni delle condizioni naturali tali da produrre un’azione della selezione naturale differente da quella che sarebbe avvenuta spontaneamente. Potremmo parlare, in definitiva, di una manipolazione genetica indiretta. La branchia della biologia che si occupa specificamente della trasmissione del materiale genetico (ereditarietà) e che pone cioè le basi biomolecolari per spiegare il processo evolutivo delle specie, è la genetica, disciplina che negli ultimi decenni ha subito un accelerazione tale, da non escludere in futuro ulteriori sviluppi imprevedibili nelle sue applicazioni. In tal senso si pone urgente il problema di capire come sia possibile gestire l’evoluzione scientifica in questo campo o, in altre parole, se le conoscenze sempre maggiori nel campo della genetica e della biologia molecolare avranno un peso determinante nella direzione del miglioramento complessivo della qualità della vita o non saranno piuttosto indirizzate verso la produzione di nuovi strumenti per l’estensione del dominio di classe, attraverso la mercificazione del materiale genetico.

Per far questo è necessario inquadrare il fenomeno in chiave storica e rapportarlo con i modi di produzione, così come si sono realizzati nel processo di transizione dalle società primitive sino a quelle post-industriali.

 

3.7. La manipolazione genetica.

Come già accennato, si può parlare di manipolazione genetica nello stesso momento in cui, modificando le condizioni ambientali, si consente che la selezione naturale operi in una direzione non naturale. In realtà questo meccanismo avviene in modo del tutto indiretto e con la totale inconsapevolezza da parte degli uomini, sia perché in un primo momento del tutto privi delle opportune conoscenze scientifiche sul processo evolutivo, sia perché i tempi con cui esso si manifesta sono incompatibili con l’osservazione diretta. Una forma ancora indiretta di manipolazione genetica è quella che riguarda l’antica pratica degli incroci selettivi di animali d’allevamento con lo scopo, in questo caso voluto e verificabile in tempi brevi, di ottenere individui con determinati caratteri più pregiati La manipolazione genetica è, quindi, un’esperienza ben più antica dello studio dei meccanismi biomolecolari di trasmissione dei caratteri ereditari ed è nata con le prime trasformazioni indotte sull’ambiente dall’uomo e con i primi successi di ibridazione praticati da contadini e pastori già migliaia di anni fa. Incroci selettivi di piante ed animali sono stati elementi presenti nella cultura dell’uomo sin dalle prime esperienze di stanzialità cui fecero ricorso gruppi umani primitivi allorché abbandonarono lo status di nomadi-raccoglitori-cacciatori.

In questa fase, proprio in funzione dell’aumento della produttività agricola e pastorale, per garantire risorse sufficienti alle nuove esigenze di una comunità in crescita ed all’espansione delle attività commerciali, iniziano i primi incroci selettivi intraspecifici tra animali e piante. Senza che se ne conoscessero i meccanismi biologici, in queste società primitive iniziano a prodursi processi indiretti di manipolazione genetica. Si superano cioè gli elementi di casualità negli incroci tra individui animali e vegetali così come si realizzano liberamente in natura, per introdurre metodiche predeterministiche che, senza essere ancora scienza, divengono i punti di riferimento paradigmatici per una nuova disciplina, la genetica, ancora distante dall’essere concepita in quanto tale. Lo stesso Mendell iniziò i suoi esperimenti dopo aver osservato i contadini, i pastori e la loro abilità nell’incrociare individui con particolari caratteri utili, al fine di predeterminarne una progenie che presentasse vantaggi per la produzione agro-pastorale. Chiarisce Darwin: "Quando cominciai a raccogliere le mie osservazioni, mi sembrò che un accurato studio degli animali addomesticati e delle piante coltivate mi avrebbe offerto il modo migliore per venire a capo di questo oscuro problema. E non sono rimasto deluso: in questo, come in tutti gli altri casi imbarazzanti, ho scoperto invariabilmente che le nostre conoscenze sulle variazioni dovute all’addomesticamento, per quanto imperfette, offrivano le indicazioni migliori e più sicure. Per questo mi permetto di esprimere la mia convinzione che questi studi sono validissimi, anche se in genere i naturalisti li trascurano" (Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale).

L’uomo ha quindi da tempo innescato meccanismi indiretti che mutano le condizioni del pool genico naturale. E’ tuttavia necessario rimarcare come queste trasformazioni, pur indotte dall’uomo, avvengono in seguito a processi adattativi che utilizzano meccanismi del tutto naturali, come la selezione naturale e la riproduzione sessuale. Di conseguenza, in particolare gli incroci selettivi intraspecifici, portavano a mutamenti progressivi nelle specie di un qualche interesse per l’uomo (sia alimentare che, più in generale, per la produzione di materie prime da trasformare anche in funzione del commercio) ma, data la loro condizione naturale (accoppiamenti sessuali intraspecifici), liberamente accessibili.

L’utilizzo di queste metodiche si sviluppa con ritmo relativamente lento sino all’epoca della rivoluzione industriale allorché le trasformazioni sociali ed economiche subiscono un’accelerazione talmente rapida da ripercuotersi in modo significativo anche su queste attività. Proprio nella fase immediatamente successiva alla rivoluzione industriale, in un contesto di massima espansione dell’economia mercantile e del capitalismo, si tenta di sostituire l’empirismo tipico di contadini e pastori, con tecniche di ibridazione sempre più perfezionate ed efficienti.

Nell’economia capitalistica, l’utilizzo dell’ibridazione mediante meccanismi riproduttivi naturali, quindi alla portata di tutti, risultava incompatibile con il dominio di classe sul modo di produzione.

La chiave di volta di questa situazione è rappresentata, nel 1935, dal brevetto del primo mais ibrido ottenuto negli Stati Uniti. Questa particolare varietà vegetale ottenuta in laboratorio, presentava due vantaggi: quello di garantire coltivazioni più redditizie e quello di essere dotata di semi sterili, incapaci, cioè, di dar vita a nuove piante. Era questa seconda caratteristica che modificava totalmente i rapporti di forza nella produzione di derrate alimentari di origine vegetale, con l’introduzione di un controllo monopolistico sul primo anello della catena alimentare: il seme. Gli agricoltori che volevano tenere il mercato erano quindi costretti ad acquistare i semi di mais ibrido direttamente dall’azienda che li produceva, abbandonando il vecchio sistema di tenere per sé una parte del raccolto per la semina. Si era determinata la prima esperienza di dipendenza per l’approvvigionamento alimentare dalle grandi multinazionali.

 

3.8. La mercificazione del materiale genetico.

Attualmente i grandi gruppi industriali che detengono il monopolio per le sementi, le cui varietà ibride e sterili sono enormemente aumentate, tendono a fondersi o a rilevarne altri, agendo in un regime monopolistico e creando cartelli, sottraendosi cioè persino alle regole del mercato.

L’avvento del mais ibrido pone un problema irrisolto che è quello che deriva dalla considerazione che la ricerca scientifica viene deprivata di una sua logica interna, venendo piuttosto efficacemente pilotata secondo precisi interessi di classe. In questa direzione riportiamo da Peace news dell’aprile del 1997 un breve scritto di Vandana Shiva (Research Foundation for Science, Technology, and Natural Resource Policy, India): "Il 1996 ha rappresentato uno spartiacque per quanto riguarda la presa di coscienza delle persone su come l’ingegneria genetica venga propagandata quale unica tecnologia per far crescere e lavorare il cibo.

Nonostante le resistenze dei consumatori, la ‘soia transgenica’ della Monsanto è stata buttata sui mercati europei. Quando i consumatori europei hanno chiesto che a questo prodotto venisse applicata un’etichetta specifica, il segretario statunitense dell’Agricoltura ha dichiarato che questa era un’interferenza nel libero commercio’, affermando inoltre che ‘dobbiamo assicurarci che la scienza prevalga, non quella che io chiamo cultura storica, che non è basata sulla scienza. L’Europa è molto sensibile alla cultura del cibo in contrapposizione alla scienza del cibo. Ma nel mondo moderno, il nostro compito è continuare a sviluppare la scienza. La buona scienza deve prevalere in queste decisioni’.

Ma il conflitto non è tra ‘buona scienza’ e ‘cultura storica’, bensì tra due diverse culture scientifiche - quella della democrazia nella scienza in contrapposizione alla cultura della scienza delle aziende basata sul controllo totalitario e monopolistico. Se né il consumatore né il produttore hanno alcuno spazio per esercitare le loro libertà e proteggere i loro diritti, e se l’ingegneria genetica può essere introdotta nel sistema alimentare solo cancellando i diritti fondamentali dei cittadini in quanto agricoltori o consumatori, ebbene allora l’ingegneria genetica diventa una forma di ‘tecnofascimo’. Solo una società fascista negherebbe ai consumatori il diritto di sapere cosa stanno mangiando e agli agricoltori il diritto di ripiantare ciò che hanno coltivato.

D’altra parte, se i consumatori avessero davvero libertà di scelta attraverso un’etichetta applicata sul prodotto, il mercato dei cibi trattati geneticamente diminuirebbe. Se gli agricoltori avessero il diritto di mettere da parte e scambiarsi liberamente i semi, il mercato dei semi trattati geneticamente sparirebbe.

Senza tecnofascismo nei supermercati e nei campi degli agricoltori, l’ingegneria genetica non può essere imposta alla gente. L’ingegneria genetica può fare il suo ingresso nei supermercati solo negando al consumatore il ‘diritto di sapere’ e il ‘diritto a scegliere’ e sovvertendo le regole della biosicurezza. Solo attraverso l’imposizione di ‘diritti di proprietà intellettuale’ i semi sviluppati dall’ingegneria genetica possono apparire nei campi coltivati.

(...) Negli ultimi anni la Monsanto ha comprato diverse piccole aziende di biotecnologia così come grandi compagnie che si occupavano di semi (...). Così il seme, il primo anello della catena alimentare, cadrà nelle mani di pochi giganteschi monopoli che non devono rendere conto a nessuno, il cui funzionamento non è trasparente e che controllano l’intero sistema alimentare agricolo.

Secondo un documento nato dalle consultazioni tra la Monsanto e l’US Food and Drug Agency, ‘la nuova varietà di soia non è materialmente differente in composizione, sicurezza o altri parametri rilevanti dalle varietà di soia attualmente presenti sul mercato.’ Dunque, parlando di sicurezza, non vi è alcuna ‘novità’ nella nuova soia.

Ma quando si arriva al brevetto e ai diritti di proprietà, la nuova soia è si una novità. Essa è infatti protetta da diversi brevetti USA e gli agricoltori devono sottoscrivere un accordo che li costringe a usare peri loro raccolti solo i nuovi fagioli di soia e a non tenerne per sé nessuno. Questo dà alla Monsanto il potere sui loro eredi e sui loro rappresentanti e il diritto a perquisire le proprietà dei contadini per i tre anni dalla vendita del seme. In più, l’agricoltore deve pagare per ogni 23 chili di semi cinque dollari di tassa tecnologica. Dunque gli agricoltori non hanno diritti; e la Monsanto non ha responsabilità, né verso gli agricoltori né verso i consumatori" (da Guerre & Pace, Settembre 1997).

Riguardo la corsa all’accaparramento dei brevetti relativi ad esperienze di ingegneria genetica e di manipolazione del DNA, si può far riferimento alla pubblicazione sulla rivista Nature dell’esperienza che portò al clone della pecora Dolly. Questa pubblicazione fu fatta circa sei mesi dopo la conclusione dell’esperimento, per evitare pubblicità sul protocollo seguito, prima che questo fosse brevettato in ogni sua singola parte. Ma l’esempio forse più eclatante cui si può far riferimento, rispetto al rischio di mercificazione del materiale genetico, sta nel numero 5.397.696 (fonte Guerre & Pace, Settembre 1997) che è quello attribuito al governo statunitense nel 1995 per il brevetto con cui si registrava la sequenza del DNA di un indigeno di una tribù montana della Nuova Guinea, costituita da circa 200 individui. Il povero indigeno, ovviamente non informato della cosa, non era più esclusivo proprietario del suo codice genetico. Questo evento paradossale pone un problema: è possibile - da parte di chi ha i mezzi per farlo - aggiudicarsi, semplicemente comprando o registrando un brevetto, la biodiversità.

3.9. Impatto ambientale della manipolazione genetica.

Il DNA non ha più segreti, e questo rappresenta una conquista straordinaria per la comprensione dei complessi rapporti che intercorrono tra l’uomo e l’ambiente, ma solo se le conoscenze verranno spese per il miglioramento complessivo della qualità della vita.

Esiste invece un problema legato anche alla comprensione dell’impatto ambientale delle sperimentazioni in ingegneria genetica e per il quale occorre una riflessione.

E’ un dato scientificamente acquisito che il meccanismo di duplicazione del DNA è - ed ancora di più lo è man mano che si sale nella scala evolutiva - talmente perfetto da non essere rilevanti, ai fini evolutivi, le differenze che intercorrono tra soggetti che non fanno ricorso ai normali meccanismi di incremento della variabilità genetica (la riproduzione sessuale o altri meccanismi sostitutivi di essa). Un dato importante, a conferma di questo, ci viene dato dall’osservazione dalle numerose specie che si sono estinte per l’accumulo di mutazioni negative nello stesso ceppo, a causa del blocco (naturale o indotto, ad esempio, dalle pressioni antropiche) di questi meccanismi di "assicurazione" della variabilità genetica. L’introduzione di tecnologie di ingegneria genetica, in sostituzione dei normali criteri di ibridazione che avvengono in natura, è, come abbiamo visto, generalmente appannaggio esclusivo delle grandi multinazionali. Queste hanno tutto l’interesse a che la variabilità genetica in seno ad una stessa specie di un qualche interesse economico sparisca, per essere, in una condizione di monopolio, gli unici proprietari di patrimoni genetici da smerciare a prezzi ricattatori. In particolare, come è già accaduto per molte specie vegetali, l’immissione di specie ibride (piante a sviluppo rapido per colture a grande produzione, ad esempio), ottenute con processi di manipolazione genetica, ha spesso indotto, per evitare reincroci e quindi inquinamenti genetici, ad eliminare le specie endemiche, diminuendo la possibilità di variazione genetica. Le piante frutto delle esperienze di ingegneria genetica hanno un corredo genico estremamente standardizzato e tenuto rigorosamente sotto controllo, proprio per garantire il massimo della produttività e di dipendenza dei coltivatori dal detentore dei brevetti. Le piante endemiche o semplicemente autoctone, sono invece il frutto di una selezione naturale vecchia di millenni ed hanno quindi un vasto campionario intraspecifico di mutazioni geniche che codificano per diversi caratteri. In caso di modificazioni traumatiche dell’ambiente, sia di origine naturale, sia indotte dall’uomo, le specie naturali posseggono una varietà genetica nel cui ambito è possibile ritrovare caratteri in grado di resistervi. Stesso ragionamento per quanto riguarda agenti patogeni o tossinfezioni. Un patogeno che colpisce una coltivazione di piante transgeniche senza caratteri utili a resistervi, può determinarne la distruzione totale dei raccolti. Nel ceppo vegetale naturale, il pool genico potrebbe invece contenere caratteri utili a resistere all'infezione. Allontanandolo per sostituirlo con uno frutto di ingegneria genetica e dotato di scarsissima variabilità genica, rende quindi problematico ricostruire in tempi brevi la piantagione.

Uno degli aspetti più nuovi collegati alle esperienze di manipolazione genetica e di ingegneria genetica è da riferire alle nuove frontiere aperte dalla clonazione. Tralasciamo gli aspetti sul controllo della sperimentazione e dei suoi risultati, cui abbiamo già fatto cenno, e cerchiamo di comprendere, sia pure sommariamente, in cosa consiste la clonazione di un soggetto animale o vegetale. Nel caso di Dolly, che è il clone ormai più famoso, la sua nascita è stata possibile grazie al trapianto del materiale genetico di una pecora femmina della razza Welsh mountain (caratterizzata da una folta lana bianca) nell’utero di una pecora Scottish Blackface (con lana nera). La seconda ha concluso felicemente la sua gravidanza, dando alla luce una copia esatta della prima, sia per aspetto (fatte salve le evidenti differenze dovute all’età), sia per la completa corrispondenza del materiale genetico. Dolly non ha cioè un padre ma due madri. In futuro sarà possibile ottenere una produzione in serie di questi cloni, "aggiustando" il materiale genetico attraverso esperienze di ingegneria molecolare per ottenere pecore, vacche o altri animali d’allevamento ad alto rendimento. Se si prospetta la diffusione su larga scala dei meccanismi di clonazione, si può ipotizzare che tutte le specie bovine (ad esempio) siano soppiantate da un unico ceppo frutto di clonazione e posto nell’incapacità di mutare il proprio codice genetico (produzione in catena di montaggio di individui tutti uguali). Una qualsiasi patologia cui il ceppo risultasse non resistente, o l’introduzione in un ambiente non idoneo (ad esempio per ragioni climatiche), potrebbe sterminare molti individui, mettendo in ginocchio le economie di mezzo mondo. Tutto questo può accadere sino a quando gli interessi degli sperimentatori concideranno con quelli delle multinazionali proprietarie dei brevetti. Alcuni esempi possono chiarire meglio questi concetti. In Australia furono immessi conigli che, vincendo la competizione per l’alimentazione con le specie che occupavano la loro stessa nicchia ecologica (i canguri), hanno rischiato di provocarne l’estinzione oltre a determinare danni consistenti ai raccolti. Si intervenne allora con un agente patogeno che decimò i conigli ma non riuscì ad ucciderli tutti proprio perché, grazie alla riproduzione sessuale che aumenta la variabilità genetica, si selezionarono naturalmente ceppi resistenti. Ceppi non naturali o ottenuti mediante semplice clonazione non avrebbero avuto difese contro l’agente patogeno e si sarebbero totalmente estinti. L’impatto negativo senza che vi sia un controllo democratico e razionale a monte sull’applicazione delle biotecnologie e sullo studio delle sue possibili conseguenze, è testimoniato anche nella diffusione della mucca olandese nelle aree siciliane in cui originariamente era allevata la mucca rossa modicana. Una differenza tra le due specie è nella qualità del latte: di elevata qualità organolettica ma molto meno abbondante quello della mucca autoctona, mentre le olandesi ne producevano molto di più ma meno pregiata. Si privilegiò l’allevamento di quest’ultima e la rossa modicana è ormai in pericolo d’estinzione. I giochi di potere tra gli stati della Comunità europea ha poi imposto "le quote latte", per cui, nel territorio della provincia di Ragusa, (dove la mucca modicana era autoctona) si è finito con l’avere latte di qualità meno pregiata ed in quantità forzatamente tenute basse. Ma c’è di più: la mucca rossa modicana era perfettamente compatibile con la qualità del foraggio naturalmente a disposizione nell’area (ad esempio riusciva a mangiare le foglie più basse degli alberi di carrubo) ed era abituata al clima arido del tavolato ibleo in cui viveva; la razza olandese invece era stata selezionata in condizioni totalmente diverse e richiedeva cure aggiuntive che, in una fase di stock di produzione controllato, non possono essere garantite con conseguenze che si possono immaginare sul livello della produzione. Adesso si tenta di correre ai ripari con un piano di recupero e salvaguardia della razza modicana.

La produzione agro-pastorale su scala industriale, senza un rapporto stretto tra ciò che si coltiva e il territorio in cui vengono ubicate le coltivazioni, con le sue realtà ambientali, economiche e sociali, può creare situazioni catastrofiche che soltanto il cinismo di chi detiene il controllo sui mezzi di produzione può ignorare.

La "rivoluzione verde", che doveva dare risposte concrete alla grave crisi alimentare ed economica indiana, non ha affatto dato i risultati sperati. Il suo avvio in India risale ai primi anni ’70 con l’introduzione su terre idonee di sementi ad alto rendimento, fertilizzanti e tecnologie meccaniche per l’agricoltura, avanzate. Dopo un boom iniziale, la crescita della produzione si è stabilizzata su standard non superiori a quelli pre-rivoluzione verde. Ad esempio la crescita annuale media del riso nel periodo della rivoluzione verde (1974 - 1984) era attestata intorno al 2,46%. Nel periodo tra il 1949 e il 1961 era del 2,72%. Per il grano la situazione non migliora di molto. Inoltre la possibilità di estendere l’esperienza si è fermata, per evidente incompatibilità tra le sementi adottate e particolari tipi di suolo più povero, ad un quinto solo dell’intero territorio coltivabile del paese, acuendo le contraddizioni in una realtà dove le differenze di produttività tra un’area e l’altra, erano già elevatissime. Le cause di questo deludente risultato sono da ricercare, per una buona dose, nell’eccessivo uso dell’ingegneria genetica che, se da un lato permette di migliorare i metodi di coltivazione, dall’altro contribuisce ad un’elevata selezione delle piante che popolano l’ambiente, impoverendo in modo irreversibile la biodiversità. La "rivoluzione verde" ha infatti lo scopo precipuo di tentare di connettere una realtà alle economie di scala e viene quindi realizzata con estese piantagioni monocolturali, da cui vengono asportate le piante endemiche. Le vaste monocolture sono poi estremamente sensibili agli agenti patogeni cui invece le specie autoctone erano sicuramente meglio adattate per i meccanismi già descritti.

Quello delle monocolture su aree molto vaste è un problema strettamente connesso all’ingegneria genetica applicata in agricoltura. Lo sviluppo tecnologico nel campo delle macchine agricole e della manipolazione genetica, tende a sostituire la manodopera umana per consentire l’incremento del plusvalore. Piuttosto che adattare le macchine alle coltivazioni si cerca di introdurre piante che abbiano tutte la stessa altezza e la stessa produttività e questo si ottiene tramite l’utilizzo di ceppi transgenici a crescita controllata e sterili, per evitare il reincrocio con specie autoctone che ne modificherebbero le caratteristiche. La meccanizzazione degli impianti, lungi dall’essere stata concepita per affrancare l’uomo dal lavoro duro dei campi, ha un effetto negativo devastante sull’ambiente

 

3.10. La biodiversità.

Proprio questi meccanismi hanno prodotto la perdita di specie e, quindi, la riduzione della biodiversità.

Per diversità biologica si intende la varietà delle forme di vita, l’esistenza e la conoscenza delle quali si misura nella nostra capacità di prevedere gli effetti sull’ecosistema della sottrazione di specie animali o vegetali. La sua conservazione è, quindi, l’assicurazione per le future generazioni di non dovere fare i conti con modificazioni catastrofiche dell’ambiente. La perdita della biodiversità si manifesta sotto forma di erosione del patrimonio genetico, cioè con il prelievo irreversibile dagli ecosistemi delle informazioni contenute nel DNA delle specie che si sono estinte: è, in sintesi, la restrizione sino all’annullamento (estinzione) della complessità, in seguito a pressioni indotte, direttamente o indirettamente, dalle attività umane. Minore è la quantità di patrimonio genetico delle specie presenti in un dato ecosistema, minore sarà la possibilità che questo ha di sopravvivere a variazioni anche minime prodotte da stress ambientali (naturali o derivanti da pressioni antropiche). A determinare la scomparsa di specie non vi è soltanto l’inquinamento o la caccia o, ancora, lo stravolgimento delle condizioni geologiche di un ambiente a causa di persistenti attività umane (cementificazione selvaggia, estrazione, emungimento della falda, allagamenti indotti con la costruzione di dighe, sbancamenti ecc.), ma anche l’utilizzo incontrollato delle biotecnologie per l’introduzione di nuovi ceppi vegetali o animali, selezionati ed introdotti in ecosistemi dove entrano in competizione ecologica con le specie naturali. La strategia perseguita, anche in questo caso alla ricerca della massimizzazione del profitto nel breve periodo (per avere pomodori più grossi e rossi, frutta senza semi o piante che fioriscono più volte in un anno...), è simile a quello del cane che si morde la coda: se da una parte si tende, infatti, ad ottenere prodotti sempre migliori attraverso le tecnologie di selezione, dall’altro si eliminano le materie prime per gli incroci selettivi, cioè quelle specie naturali - o selezionate dalle arti empiriche di contadini e pastori di un tempo - che sono dotate di maggiore malleabilità genetica e, quindi, di maggiori capacità di adattamento alle trasformazioni ambientali delle specie derivate dalle moderne biotecnologie.

Il problema si complica ulteriormente se si fa riferimento all’estinzione di specie naturali (soprattutto vegetali) nei P.V.S. Qui la perdita della biodiversità si realizza principalmente con l’estensione delle monocolture, dei pascoli e del prelievo di legname a danno delle foreste (le fonti primarie della biodiversità). Le sementi dei vegetali i cui habitat naturali sono stati distrutti, vengono poi conservati per gli innesti selettivi nelle grandi banche del seme dell’occidente, rimanendo quindi ad esclusiva disposizione delle grandi potenze industrializzate e ponendo i P.V.S. in una condizione di ricatto permanente e di dipendenza assoluta dalle biotecnologie occidentali. Si innesca cioè un mercato perverso del materiale genetico che svantaggerà i paesi in via di sviluppo, non dotati delle necessarie biotecnologie, reperibili soltanto ai prezzi imposti da un mercato drogato dai monopoli.

La complessità biologica è quindi in pericolo, la semplificazione è morte ed è tragicamente in agguato. Essa ha delle manifestazioni eclatanti: il taglio di una foresta, il buco nell’ozono, l’effetto serra, ma più subdola ancora è quando non è immediatamente percettibile: L’80% dell’ossigeno contenuto nell’atmosfera, ad esempio, è il prodotto dell’attività fotosintetica del fitoplancton, la cui biomassa rischia di ridursi pericolosamente a causa dell’inquinamento delle acque.

 

3.11 Una prospettiva nella consapevolezza.

Il quadro prospettato può essere interpretato come disarmante ma tanto più si manifesta l’irrazionale atteggiamento umano se si valuta che ulteriori progressi della scienza (di cui ribadisco la necessità di una riconquista di indipendenza dal potere economico) metteranno in luce altri fattori di crisi.

La strada per affrontare questi temi è tracciata ma occorre uno sforzo straordinario senza preconcetti ed il rilancio di un interscambio costante tra donna-uomo, specie umana-natura, scienza-natura, vita-morte. In verità oggi assistiamo piuttosto ad una consapevolezza, anche se marginale, dell’importanza di queste questioni, ma il modo con cui le affrontano, donne, uomini, ambientalisti, in ordine sparso contro lo stesso obiettivo classista, rasenta l’ottusità, diventa organico ad una concezione borghese della vertenza, corporativizza le lotte e le vanifica nei mille meandri della parcellizzazione.

Capitolo 4

 

 

Energia e ambiente; Il dualismo città/campagna

 

 

 

 

4.1. L’impatto ambientale del modo di produzione dell’energia.

Nelle condizioni attuali, l’elemento che sembra maggiormente decisivo nel determinare modificazioni traumatiche sull’ambiente e, quindi, il suo allontanamento dalle condizioni di equilibrio naturale, è l’approvvigionamento energetico.

Se da un lato il progresso tecnologico, cui consegue l’ottimizzazione degli impianti, il miglioramento delle tecniche di prospezione mineraria e il processo di dematerializzazione delle merci, sembrano aver allontanato, almeno per il momento, lo spettro dell’esaurimento delle risorse naturali, dall’altro si profila come unica risorsa assolutamente scarsa l’energia, la cui produzione deve fare i conti anche con l’impatto ambientale negativo dei meccanismi utilizzati per la sua produzione.

La questione energetica riguarda molteplici aspetti tra i quali i più importanti sono:

a) l’impatto negativo sull’ambiente dei modi di produzione dell’energia;

b) l’aumento di entropia;

c) i modi di organizzazione sociale e le dinamiche internazionali conseguenti al tipo di approvigionamento energetico prescelto.

Allo stato attuale esistono due modi principali di produzione di energia, quello che utilizza combustibili fossili e quello legato alla fissione nucleare. E’ abbastanza scontato rimarcare come entrambi i modelli nascondano, insiti nella propria natura, i rischi di una contaminazione dell’ambiente naturale, con fenomeni di inquinamento variabili in relazione alla tipologia dell’impianto. Le ricadute negative sull’ambiente sono amplificate in relazione alla delocalizzazione degli impianti rispetto alla provenienza delle materie prime che li alimentano. Trasportare, ad esempio, petrolio dal Golfo Persico in Italia produce un impatto ambientale negativo.

 

4.2. Energia e processi vitali ed ecologici.

L’energia non è soltanto funzionale ai sistemi economici ed al modo di produzione, ma anche alla vita stessa. La comparsa delle prime forme viventi sulla Terra e la loro evoluzione, sono state determinate dalla radiazione solare, prima fonte energetica per tutte quelle reazioni chimiche che, circa 3 milioni di anni fa, determinarono la formazione, nel brodo primordiale, delle prime molecole organiche complesse e dei primi aggregati macromolecolari (coacervati) progenitori degli esseri viventi. Le spoglie degli organismi morti vengono decomposte e, nel corso delle ere geologiche, la loro materia organica, che conserva l'energia solare accumulata in vita sotto forma di legami chimici, si trasforma in carbone, petrolio, gas naturale, divenendo fonte primaria di energia per i sistemi produttivi industriali più diffusi.

Anche l’energia idroelettrica è secondaria rispetto a quella solare perché il ciclo dell’acqua, così come i venti, si realizza comunque per effetto della irradiazione solare.

L’energia solare, così come tutte le altre fonti di energia, è soggetta alle Leggi della Termodinamica: la prima afferma che l’energia né si crea né si distrugge ma soltanto si trasforma; la seconda afferma che durante questa trasformazione una parte dell’energia viene irrimediabilmente perduta sotto forma di "entropia" (Clausius). Queste due leggi possono essere lette in chiave ecologica affermando che gli organismi vegetali trasformano l’energia solare in energia chimica di legame per mezzo della "fotosintesi clorofilliana"; l’energia chimica di legame viene poi liberata nell’espletamento delle funzioni metaboliche degli organismi viventi, venendo in parte trasformata in calore. A partire dagli organismi vegetali, che immagazzinano nei loro tessuti, in forma di molecole complesse, l’energia solare, è possibile delineare il passaggio di energia da un livello trofico all’altro attraverso la catena alimentare:

al primo posto della rete trofica sono allocati i produttori primari (vegetali, batteri fotosintetizzanti, alghe blu...);

il secondo livello trofico è occupato dai consumatori primari, organismi animali che si nutrono esclusivamente degli esseri viventi appartenenti al primo (erbivori);

il terzo livello trofico compete ai consumatori secondari (carnivori), ed il quarto agli esseri viventi onnivori, tra cui la specie umana. Delocalizzati rispetto a questa scala, stanno gli organismi decompositori che si nutrono delle spoglie morte degli altri organismi, a prescindere dal livello trofico in cui sono collocati.

La perdita di energia che si ha quando si passa da un livello trofico a quello successivo è altissima: in realtà soltanto un decimo della biomassa di un livello trofico può essere utilizzata dal successivo per ricavarne energia.

L’energia che rimane nella biomassa non utilizzata, non viene perduta, ma il suo bilancio complessivo deve rimanere costante. Essa si trasforma in una forma degradata, cioé nella condizione di non potere essere utilizzata per produrre un lavoro metabolico, ed in materia decomposta a basso contenuto entropico.

 

4.3. L’entropia.

La tendenza dell’energia a "degradarsi" viene definita da una grandezza fisica, l’entropia, che è inversamente proporzionale alla quantità di energia "pregiata" disponibile, cioé utilizzabile per un lavoro. L’entropia viene anche definita come misura del disordine perché definisce la propensione delle energie pregiate a raggiungere la forma termica ovvero la condizione massima di energia cinetica, cioè con il massimo del movimento caotico - quindi disordinato - delle particelle. I processi naturali tendono spontaneamente a raggiungere il massimo grado di entropia cioé di disordine. Ma gli esseri viventi vivono condizioni di bassa entropia perché riescono a canalizzare l’energia pregiata proveniente dal sole, liberando calore ed aumentando l’entropia del sistema esterno. Tutti i sistemi viventi isolati (piante, animali...) e organizzati (un bosco, un lago, un fiume, il mare...)così come i sistemi economici e gli aggregati umani (villaggi, città, fabbriche...), tendono a dissipare energia e quindi ad aumentare l’entropia complessiva del sistema. Per mantenersi a bassa entropia e poter continuare ad esistere hanno, quindi, la necessità di un apporto continuo di energia pregiata. La stessa Terra nel suo complesso può essere considerata un sistema dissipativo, mantenuto in vita, e perciò a bassa entropia, dal continuo afflusso di energia proveniente dal sole. La differenza sostanziale tra i sistemi dissipativi naturali e quelli umani è nell’utilizzo quasi esclusivo, da parte dei primi, di energia solare e, per i secondi, di materia a bassa entropia. I sistemi dissipativi umani, quindi, non soltanto producono alta entropia, ma distruggono per continuare ad esistere, quantità sempre più alte di materia a bassa entropia divenendo, cioè, dissipativi due volte.

 

4.4 La produzione di energia nella transizione

Karl Marx scriveva in Il Capitale, vol. 1, cap. 5, "il lavoro è un processo che si volge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione media, regola, controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura; contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite ed assoggetta il gioco delle loro forze al proprio potere".

L’uomo preistorico poteva contare, per le sue esigenze, unicamente sull’energia muscolare, alimentata attraverso il cibo. La scoperta del fuoco determinò un salto culturale enorme che non ha più avuto paragoni nella storia umana. Con il fuoco l’uomo iniziò a provvedere al riscaldamento degli ambienti presso cui viveva, a cucinare il cibo migliorandone la digeribilità, ad estrarre dalle rocce i metalli, passando, quindi, dall’età della pietra a quella del bronzo e a quella del ferro. L’uomo utilizzava il fuoco anche per la caccia, incendiando i boschi per canalizzare la fuga delle sue prede. Sin dal primo utilizzo di una fonte energetica egli determinò, cioé, un impatto ambientale negativo delle sue attività. Al periodo di apprendistato nella gestione del fuoco, seguì quello di una comunità umana organizzata socialmente in modo più definito. Iniziarono le prime forme di agricoltura e l’allevamento di animali che, oltre a fornire cibo, garantivano, con la loro forza muscolare, anche un nuova fonte energetica (l’"animale-macchina" di Cartesio).

Sino alla Rivoluzione Industriale, le fonti energetiche dell’uomo non erano cambiate di molto e rimanevano comunque tutte rinnovabili, dall’energia muscolare umana ed animale, alla combustione con legna, dallo sfruttamento con ruote e mulini della caduta gravitativa dell’acqua, alla forza del vento che alimentava le vele delle navi e le pale dei mulini a vento. La vera rivoluzione fu nel 1769 con l’introduzione della macchina a vapore di Watts, in grado di scatenare un’energia, per quel periodo storico, sorprendente. I combustibili fossili con cui era alimentata erano disponibili un po’ ovunque in gran quantità, potevano facilmente essere trasportati e non era necessario attendere che si rigenerassero. L’enorme energia pregiata potenziale che contenevano, iniziava così ad essere dissipata nella forma degradata del calore. Una maggiore quantità di energia disponibile poteva essere utilizzata per trasportare ed estrarre dalle viscere della terra ancor più combustibili fossili (carbone), che servivano ad alimentare la spaventosa mole di processi produttivi, nati in seguito a quella improvvisa ed immensa disponibilità energetica. L’invenzione del generatore elettrico, alla fine del secolo scorso, consentì di disporre di energia facilmente trasferibile, che contribuì a dare ulteriore slancio a nuovi processi produttivi. L’uomo iniziò, quindi, a trasformare, con rapidità sempre crescente, quello che la natura aveva immagazinato in forme a bassa entropia nel corso di milioni di anni, aumentando la quantità di disordine del sistema Terra. In più, la soppressione di condizioni di naturalità di pezzi sempre più estesi del pianeta, restringeva l’area in cui poteva realizzarsi la produzione di materia a bassa entropia.

Ragionare solo sulla produzione dell’energia non è sufficiente. L’energia prodotta serve infatti a mantenere in vita la produzione di merci che, nelle società a capitalismo avanzato, è altamente energivora, consuma cioè alte quantità di energia. "Ho ritenuto in passato, e ancora ritengo, che la legge dell’entropia sia la radice profonda della scarsità economica: in un mondo in cui non vigesse tale legge sarebbe possibile utilizzare tutta l’energia, compresa quella del ghiaccio delle calotte polari, trasformandola in lavoro meccanico, e gli oggetti materiali non si consumerebbero; ma certamente non esisterebbe neppure la vita. Nel nostro mondo, tutto ciò che per noi ha una certa utilità è costituito da bassa entropia, ed è per questo che il processo economico è entropico in tutte le sue fibre materiali" (Geogescu-Roegen). Ogni qualvolta una materia prima a bassa entropia viene inserita in un processo produttivo, essa viene trasformata in merci, ad entropia ancora bassa ma che tende ad aumentare con la loro usura, ed in rifiuti ad alta entropia. I processi produttivi aumentano cioè l’entropia complessiva oltre i limiti sopportabili. I meccanismi naturali riescono a mantenere bassa l’entropia del sistema, ma occorrono millenni se non milioni di anni perché si realizzino. I meccanismi di produzione industriale consumano, invece, in pochi istanti ciò che la natura ha fatto in moltissimi secoli, contribuendo ad aumentare l’entropia complessiva del sistema Terra. L’entropia che questo sistema può sopportare, non deve mai essere tanto alta da superare il valore >1 nel suo rapporto con la negaentropia, cioè la misura dell’ordine.

Non ha nessun senso ragionare in termini di "cambio di rotta" verso energie cosiddette alternative, se non si modificano anche gli obiettivi dei processi produttivi. Limitare la produzione di merci ad utilità bassa e individuale, privilegiando merci che soddisfino i bisogni collettivi, può allontanare lo spettro di una modificazione traumatica di questo rapporto, le cui conseguenze sarebbero spaventose. In altre parole "non esiste un problema energetico, perché di energia è possibile averne più di quanto il nostro pianeta riesca a sopportarne; esiste invece un problema entropico, perché l’inquinamento generale e complessivo causato dagli esorbitanti consumi energetici è ormai tale da far temere una crisi generale economico-ecologica irreversibile" (G. Amata, S. Notarrigo, Energia e ambiente, una ridefinizione della teoria economica, C.U.E.C.M., Catania, 1987).

 

4.5. Le dinamiche sociali ed internazionali

Fermo restando che il modo di produzione captalistico ha come obiettivo la produzione di merci, prescindendo dalla loro utilità sociale, l’unica ragione per cui viene privilegiata una certa modalità di approvigionamento energetico, piuttosto che un’altra, è legata anche a "convenienze" di natura sociale e politica oltreché economica.

Molti paesi occidentali, Stati Uniti in testa, praticano ad esempio politiche di approvvigionamento energetico rivolgendosi ai P.V.S. per le materie prime, pur avendone a disposizione una grandissima quantità. Con questo sistema si garantiscono un controllo politico ed economico di tipo imperialista sui paesi non industrializzati ma in possesso di ampi giacimenti di combustibili fossili, controllando contemporaneamente anche i flussi energetici dei paesi economicamente concorrenti. Ma, in aggiunta, si garantiscono una riserva consistente del loro patrimonio di risorse naturali che, nell’evidenza della finibilità delle risorse dei P.V.S., sarà utile per salvaguardare un’egemonia imperialista per un periodo ancora molto lungo, in un quadro di garanzia per la forma della propria sovrastruttura interna.

Sulla scorta di queste considerazioni venne proposta anche una suddivisione della Terra in quattro mondi così articolati: il Primo Mondo era composto da quei paesi, come USA e URSS che possedevano sia tecniche di trasformazione avanzate, sia abbondanti giacimenti di materie prime; del Secondo Mondo erano parte quei paesi, come l’Italia e il Giappone, che, pur in possesso di un buon apparato produttivo e tecnologico, non disponevano però di giacimenti di materie prime; erano paesi del Terzo Mondo quelli sprovvisti di un adeguato sviluppo tecnologico industriale ma ricchi di risorse naturali (paesi Arabi, Sudafrica, India...); infine erano paesi del Quarto Mondo, quelli privi sia di una qualsiasi forma di sviluppo industriale, sia di risorse naturali. Questa suddivisione, ancora oggi utilizzata, alla luce dei nuovi equilibri internazionali mostra tutta la sua vacuità. Ipotizzare una sorta di impero USA-URSS, ormai è puro delirio, così come non ha senso parlare di paesi del Quarto Mondo come privi di risorse perché, le politiche imperialiste dei paesi occidentali fruiscono a piene mani, con uno sfruttamento bestiale, della manodopera a basso costo che vi si può reperire.

Tuttavia, fatte salve alcune valutazioni oggettive sul complicarsi dei rapporti Nord-Sud, alla ricerca di un controllo sulle fonti energetiche, val la pena sottolineare come il modo con cui si sono realizzati i processi di approvvigionamento energetico sono organici all’affermazione di una logica di gestione assolutista della società, anche all'interno dei paesi industrializzati. E’ facile rendersi conto della correlazione diretta tra le scelte politiche dei governi e le strategie economiche delle multinazionali dell’energia. Basti pensare alla capacità di mobilitare un esercito ed un armamento senza precedenti nella storia dell’uomo, per il controllo dei flussi di energia, in occasione della Guerra del Golfo. Il costo di quella operazione non ammette che vi siano concessioni al ripensamento dei meccanismi di produzione energetica e nell’indirizzare i consumi verso il petrolio e, più in generale, verso i combustibili fossili: occorre infatti ammortizzare gli enormi costi di quella missione.

La dipendenza energetica dei paesi dalle multinazionali dell’energia è il mezzo di controllo e di ricatto più formidabile che esista. Non si può ritenere plausibile nessun tentativo che miri ad un ribaltamento dei rapporti di forza che non parta da questa constatazione.

La produzione di energia avviene oggi in centrali enormi soggette al controllo di una borghesia tecnocratica che attraverso di esse esercita il suo dominio di classe non consentendo il decentramento (per l’ovvia difficoltà ad assicurare approvvigionamenti energetici alle "periferie", a partire dagli impianti a combustione o nucleari) e determinando il drammatico abbandono della campagna (che peraltro, per quanto già detto, viene abbandonata per la meccanizzazione della produzione). Coerentemente con questa visione assolutista e totalitaria dell’approvvigionamento energetico si sviluppano strategie di ricerca soltanto in alcuni campi: ottimizzazione degli impianti di combustione, sfruttamento dell’energia idrica nei fiumi con la costruzione di gigantesche dighe e il nucleare, bandito dall’Italia, ma su cui continua la sperimentazione in tutto il mondo. In questa fase, non ha alcun riscontro un’ipotesi di produzione di energia a partire da radiazioni solari, energia eolica e maree. Le ragioni di queste scelte sono di duplice natura: la prima è, ovviamente, non deprivare le multinazionali del potere coercitivo sulla popolazione mondiale, esercitato con il controllo monopolistico dei combustibili fossili e garantito dal sostegno politico dei governi occidentali (quasi sempre espressione delle stesse multinazionali) e delle borghesie rapaci (o dei militari) che controllano i PVS; la seconda opposizione allo sviluppo della ricerca scientifica nel campo delle energie alternative, è tutta interna alla tipologia degli impianti che, per propria natura, devono essere il più possibile decentrati, potenzialmente funzionali, cioè, ad uno smantellamento delle megalopoli e, quindi, fattori di crisi per la sovrastruttura centralizzata che trova legittimazione nel modo di aggregazione delle grandi città. Gli impianti ad energia solare richiedono grandi spazi per la loro messa in opera e quindi sono idonei per piccoli aggregati sociali, come potrebbero essere le comunità rurali. Rivolgersi a questa tipologia energetica significa in pratica riproporre un modello organizzativo della società che rimetta completamente in discussione gli equilibri interni alla sovrastruttura, quelli internazionali, le regole economiche e i rapporti sociali e, in parte, anche i rapporti di produzione. L’energia solare giunge infatti su tutto il pianeta in modo relativamente uniforme, con una maggiore irradiazione, semmai, in quei paesi del Sud del mondo che devono la loro condizione di sottoviluppo al modo con cui si è realizzato, da parte dell’imperialismo occidentale, lo sfruttamento delle materie prime di cui dispongono. Gli impianti di energia non possono essere delocalizzati rispetto all’irradiazione e non hanno alcuna conseguenza diretta sull’ambiente perché, in ogni caso, le radiazioni solari giungono sulla Terra in quantità enormemente più alta di quelle che possono essere utilizzate, e comunque il loro destino complessivo è segnato. Le sue applicazioni sono innumerevoli perché può fornire calore per riscaldare acqua ed ambienti, può essere trasformata in energia elettrica tramite cellule fotovoltaiche e può alimentare piccoli mezzi di trasporto. E tutto questo ad un livello di perfezionamento degli impianti ancora molto basso. Il suo sfruttamento avrebbe il senso di un’emancipazione da parte dei paesi del Sud del mondo dalle tecnologie di produzione dell’energia mutuati da quelli del Nord e della campagna, dalla città.

I paesi del Nord si arricchiscono saccheggiando brutalmente materie prime ai paesi del Sud che rimangono quindi in un deficit di sviluppo mantenuto dagli attuali meccanismi di produzione dell’energia. Poi l’energia ricavata dalle materie prime saccheggiate, viene utilizzata al Nord per la fabbricazione di merci spesso di bassissima utilità sociale, mentre al Sud non vengono soddisfatte nemmeno le necessità vitali.

La tendenza attuale non pone affatto la questione di un’inversione di rotta, al contrario, le ricerche scientifiche sull’approvvigionamento energetico hanno oggi una nuova chimera, la fusione nucleare. Lungi dall’essere realizzata, ancora in fase di sperimentazione - senza sicurezza del risultato finale -, questa forma di produzione di energia ha sottratto risorse spaventose alla ricerca nel campo delle energie alternative. Ma nasconde un’ulteriore elemento di perversione: l’impianto tipo previsto è di tali dimensioni e dovrebbe produrre una tal quantità di energia da lasciar suppore una subordinazione totale di tutta la società ai tecnocrati che lo fanno funzionare. Il quadro è di tipo orwelliano, inquietante e paradossale nel contempo.

Certo, occorre sottolineare ancora una volta, come non sia sufficiente delineare il modo alternativo di produzione energetica, perché, comunque, il modo di produzione capitalistico si indirizza sempre verso la produzione di merci a basa utilità sociale, altamente energivore, quindi, a contenuto entropico alto, prescindendo dal modo con cui viene ricavata energia. Cioè, non ha senso parlare di energia solare, o eolica, a limitato impatto ambientale, se poi questa stessa energia viene utilizzata per alimentare processi produttivi che la degradano.

 

4.6. Il dualismo città/campagna.

La scelta del modo di produzione dell’energia va inserita in un contesto più ampio che è quello di un’accentuazione del dualismo e della distanza tra città e campagna a tutto vantaggio della prima. Abbiamo già detto che la localizzazione degli impianti di produzione dell’energia nelle aree industriali delle megalopoli, produce, oltreché un impatto ambientale negativo su un territorio limitato, di cui sono state abbondantemente superate le capacità di resilienza, anche un abbandono della campagna. Questo ovviamente non può significare che la campagna, con il suo potenziale di produzione di mezzi di sostentamento alimentare, divenga improvvisamente inutile per la città. Ma piuttosto che i flussi di materia ed energia dalla campagna alla città, impediscono, come dice Marx, il ritorno alla terra di ciò che si è consumato e quindi il loro riciclo naturale.

La strutturazione della città di grande dimensione ha una ragione storica nella necessità delle classi dominanti di garantirsi, in condizioni economiche congiunturalmente differenti, un controllo sociale verticistico sulle donne e sugli uomini.

Secondo G. Amata (Lo sviluppo perverso, C.U.E.C.M., Catania 1992) esistono tre grandi periodi nella storia del rapporto città campagna:

a) la nascita ed il declino della città nel mondo antico;

b) la rinascita della città artigianale tardo-medievale ed il suo assorbimento nel modo di produzione feudale;

c) lo sviluppo della città industriale in metropoli prima ed in grande conurbazione territoriale ai giorni d’oggi con massimo inquinamento, devastazione ambientale e depauperamento agricolo.

Nella prima fase la città nasce come entità autonoma ed autosufficiente negli snodi di grande traffico commerciale ed in prossimità dei luoghi di provenienza delle materie prime pregiate che vengono lavorate e trasformate in merci negli aggregati urbani. La sovrastruttura di queste "città-stato" risente di questa condizione storico-economica e dei rapporti di produzione così come si realizzano in questa fase. Esse godono di una notevole autonomia e la loro potenza si esprime nella capacità di garantirsi un approvvigionamento sufficiente, soprattutto nei momenti di conflitto militare, che è in relazione con le dimensioni del territorio da esse dipendente, e nella capacità di proteggere questo territorio con opere di fortificazione. Il tipo di impianto urbano che si sviluppa in questa fase, a partire dalle grandi città babilonesi ed assire, sino ai periodi di massimo splendore di Atene e Roma, consta di due elementi fondamentali: la magnificenza dei palazzi, molto elevati ed inseriti in un tessuto urbano con pianta ortogonale, e la possenza delle mura. Entrambi questi fattori contribuivano a rendere autonoma la città dalla campagna, fondandone la capacità autogenerativa sugli embrionali valori di scambio che iniziavano a delinearsi. Avevano anche il compito di circoscrivere la popolazione in ambiti sempre più stretti - la fabbricazione di palazzi e case a più piani era uno degli strumenti - per consentirne una sottomissione alla gerarchia cittadina, escludendo le attività economiche che si svolgevano liberamente nelle campagne e determinandone il rapido declino. Una prospettiva di controllo sulla popolazione trovava un altro utile strumento nella creazione di spazi di aggregazione all’interno delle mura cittadine: nascevano l’Agorà, il teatro, e a Roma, le terme, il circo ed altre strutture ricreative originali o mutuate dall’architettura e dall’urbanistica greca o ancora precedente. Con Atene prima e poi con Roma comincia a divenire supremo regolatore della vita della città il valore di scambio e la campagna viene sostanzialmente colonizzata e subordinata alle esigenze della città per alimentarne le attività commerciali. Nel periodo di espansione del’Impero Romano, il modello viene esportato con grande successo anche nei territori occupati e garantito da un apparato statutario efficiente e poderoso e dal ricorso sistematico allo schiavismo come condizione per lo sfruttamento dei territori annessi. La crisi dell’impero e, quindi, della concezione che si era delineata della città, coincide con la crisi del modo di produzione schiavistico e con il contemporaneo affermarsi della "villa romana" come entità capace di rendersi autonoma dal punto di vista produttivo, e con l’emancipazione della campagna e della provincia dalla capitale. Si comincia a delineare, in alternativa al modo di produzione schiavistico, quello servile, come embrione dei rapporti di produzione di epoca feudale.

La gestione delle terre ed il loro passaggio di proprietà, era definito entro ambiti giuridici prefissati in codici rigidi. In particolare la proprietà della terra era legata alla proprietà degli schiavi e dei coloni. La progressiva emancipazione degli schiavi e la nascita della popolazione rurale servile che ne conseguì, insieme alla delocalizzazione di molte attività produttive nelle ville dell’immensa provincia dell’impero, presso cui si stabiliva un’aristocrazia insofferente alla vita sociale e politica decadente di Roma, spostarono in periferia l’asse di riferimento per i valori di scambio, lasciando la capitale non in grado di reagire ed addattarsi a questa nuova condizione. Da questo il declino dell’ultima grande città dell’evo antico, e non certo dalla ferocia delle invasioni barbariche, come semplicisticamente e superficialmente viene spesso riferito

Per rivedere un "rifiorire" della città occorrerà attendere lo sviluppo delle attività artigianali, della bottega come unità produttiva e la sconfitta della concezione feudale che si opponeva alla crescita delle piccole attività produttive cittadine.

Cuore del modello produttivo artigianale era il Comune presso cui si consumava anche il conflitto con gli interessi della feudalità. Nel XII e XIII secolo le città-stato cominciano ad aumentare la propria popolazione mentre gli artigiani smettono la vecchia usanza di coltivare, per le proprie esigenze personali, piccoli appezzamenti di terra, specializzandosi nella produzione di manufatti. E’ il periodo rinascimentale che tonifica le città, modificandone l’impianto urbano ed adattandolo alle nuove esigenze produttive, con sistemi di fortificazioni efficaci ed un sistema viario che consentisse di raggiungere ogni bottega in tempi brevi. Crescendo il loro potere economico, gli artigiani iniziano ad assumere personale in forma di apprendisti, determinando una forma inedita di sfruttamento della manodopera. Le condizioni bestiali cui sono soggetti i lavoratori dipendenti creerà le condizioni di violenti scontri di classe. A questi gli artigiani-padroni risponderanno con alleanze con i feudatari che, d’altro canto, pur vivendo preferenzialmente nei loro castelli delle campagne, e curando prevalentemente il latifondo, non avevano tutti abbandonato le città. La nuova alleanza tra borghesia artigianale e aristocrazia creerà una sovrastruttura che ha la sua espressione nella Signoria, nel Ducato o, nel caso di Roma, nello Stato Pontificio. Questi nuovi poteri, sostitutivi di quelli relativamente più partecipati dei Comuni, impediscono uno sviluppo progressivo della città, presso cui si realizza un processo di decadenza delle strutture urbanistiche. Un fenomeno che determina il nuovo proiettarsi degli interessi economici verso la campagna, dove le grandi famiglie tornano a stabilirsi, riorganizzando, tra il ‘500 e il ‘600, la vita rurale intorno a residenze sontuose e ai vecchi castelli. Le condizioni di vita delle città, sovraffollate e senza un adeguamento sufficiente delle infrastrutture, finiscono per deteriorarsi, producendo il riassorbimento del modo di vivere urbano in una nuova fase feudale.

Con l’avvento della Rivoluzione Industriale il ruolo della campagna decade rapidamente, sostituito da un nuovo impulso all’aggregazione urbana. Il ritorno alla città, questa volta non segue alcuna regola razionale ma si realizza in modo convulso, anarchico, con il sorgere di vaste periferie degradate intorno ai nuovi insediamenti industriali. Questo processo è sostenuto dalla riconversione di ampie aree agricole a pascolo ovino, per produrre la lana necessaria alle industrie tessili. Il valore di scambio diventa fondamentale, innescando il processo di speculazione edilizia che fa levitare il prezzo delle case. L’avvento dei mezzi di trasporto meccanici ingigantisce il fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia a discapito delle terre coltivabili e la città acquista una fisionomia che ne denota la divisione in classi, con zone residenziali dotate di servizi efficienti e, via via, attaverso aree intermedie, con zone periferiche che ospitano l’armata industriale di riserva. Man mano che questo processo si realizza e le città diventano sempre più ampie - grandi città, metropoli, megalopoli -, le aree urbane cominciano ad accavallarsi e si formano le grandi conurbazioni. Qui si realizzano certamente effetti devastanti di degrado ambientale, la città produce rifiuti che riversa su se stessa e sulle aree agricole limitrofe, ma anche fattori di degrado sociale con un’incidenza altissima di fatti delittuosi risolti esclusivamente, da Hobbes in poi, con l’attribuzione del monopolio assoluto della violenza allo stato. Le città divengono luogo di tensioni sociali che la borghesia tenta di risolvere blindando la sovrastruttura e centralizzando gli strumenti decisionali al suo interno. Il decentramento viene guardato con sospetto dalle istituzioni borghesi per una serie di ragioni: la prima è che un ritorno alla campagna renderebbe autonomi molti consumatori cittadini dalle grandi reti di distribuzione e potrebbe persino, almeno per certe merci, come le derrate alimentari, escluderli completamente dal mercato; verrebbe a decadere la logica ricattatoria della garanzia della protezione contro la violenza cittadina, in cambio di consenso politico; il decentramento seguirebbe a strutture amministrative delocalizzate con sempre maggiori poteri a discapito della sovrastruttura centrale; non avrebbe più luogo la concentrazione di masse diseredate in grandi periferie suburbane da sottoporre a ricatto occupazionale; aumenterebbe l’occupazione per la necessità di decentrare alcune funzioni sociali, moltiplicandone il numero, e quindi diminuirebbe il tasso di povertà che gli economisti liberisti ritengono essere necessario per garantire il mercato.