ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI
Karl Marx - Friedrich ENGELS
Lettere dell’Istituto n° 18
RESTAURAZIONE
Fissiamo alcuni concetti.
La riforma Fornero del Mercato del Lavoro, come esposta nel testo di Ddl in discussione al Parlamento, dichiara di voler “realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi”. Per farlo interviene sulle modalità di assunzione e di licenziamento individuale e sugli strumenti di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro. Il testo è al vaglio parlamentare e potrebbe subire modifiche ma è possibile fare già alcune osservazioni.
Sul piano delle assunzioni non pare di rilevare alcun contributo alla “crescita di occupazione di qualità”. Il testo Fornero conferma, infatti, tutte le 46 forme già previste dal Dlgs 276/03 lasciando pertanto invariato il quadro desolante di utilizzo scriteriato e improduttivo della forza lavoro inaugurato dai precedenti governi di destra e centro sinistra. Non vi è di fatto alcuna misura che assorba i lavoratori precari -utilizzati per sopperire ad esigenze di tempi indeterminati- in forme stabili di occupazione. Al contrario, si liberalizza il “primo” uso del tempo determinato sopprimendo, in questo caso, l'obbligo della causale. Ovvero si potrà assumere per massimo 6 mesi ed una solo volta senza causali né tetti a dispetto di quanto previsto dai CCNL di categoria. Sarà questa la “crescita di qualità” di cui parla la ministra? l'aumento dei tempi determinati? Anche il tanto sbandierato aumento del costo per l'utilizzo del contratto a tempo determinato è poca cosa e scompare del tutto se si lo si legge con il Dlgs 24 del 2 Marzo 2012 (recepimento delle normative europee in materia di agenzie interinali). Con questo Dlgs si liberalizza, infatti, il ricorso al lavoro interinale, rendendolo decisamente più economico e facendo saltare sia le causali che i tetti previsti dai contratti nazionali, soprattutto per lavoratori in cig e svantaggiati. Questa misura determinerà di fatto un travaso degli attuali tempi determinati e di tutti i lavoratori interessati da procedure di chiusura/riorganizzazione, ecc, verso questa forma di “nuova” precarietà. Inoltre resta vigente la norma che rende peggiorativo il trattamento dei lavoratori somministrati rispetto a quelli della cosiddetta ditta utilizzatrice. Appare qui chiaro il tentativo di far transitare il business del “precariato” nelle mani delle Agenzie Interinali in modo che la forma “interinale-somministrata” diventi quella “prevalente” per tutte le future assunzioni, non certo il tempo indeterminato subordinato. Sul piano dei licenziamenti, attraverso la disarticolazione delle causali di licenziamento (discriminatorio, disciplinare ed economico), la riforma svuota di forma e sostanza l'art. 18. La possibilità della reintegra sul posto di lavoro diventa un evento quasi eccezionale ed è limitata ai soli casi di licenziamenti discriminatori, ovvero quelli dove si riesce a dimostrare che il licenziamento è avvenuto per motivi politici, ideologici, religiosi, ecc; reintegra è prevista anche per i licenziamenti economici ma solo in caso di “manifesta insussistenza” delle ragioni del licenziamento. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le aule di giudizio sa che i casi in questione sono rarissimi e che nessun datore di lavoro è così sprovveduto da lanciarsi in un licenziamento senza aver adeguatamente preparato qualche motivazione funzionale, di bilancio, di cambio mansione che giustifichi, anche solo transitoriamente, la sua scelta. In tutti gli altri casi di licenziamento economico, poi, c'è sempre il risarcimento economico. Per i licenziamenti di carattere disciplinare o è il giudice a decidere o, nella maggioranza dei casi, è previsto solo un risarcimento di alcune mensilità. In tutti i casi è prevista la conciliazione obbligatoria presso gli Ispettorati del lavoro, durante la quale il datore di lavoro offre un risarcimento che, se respinto dal lavoratore, comporta la comunicazione di licenziamento e quindi l'eventuale passaggio in giudizio. Senza contare che il rifiuto della proposta conciliativa diverrà motivo di penalizzazione per il lavoratore nel corso dell’eventuale giudizio; sia ai fini della condanna alle spese di giudizio sia per la determinazione dello stesso risarcimento del danno. Inoltre nel testo del DDL, è espressamente detto che accettando la transazione presso le DPL si può accedere ai servizi di ricollocazione professionale attraverso l'affidamento ad una Agenzia Interinale di Somministrazione. Moltissimi lavoratori saranno indotti ad accettare la mediazione risarcitoria anche inferiore a 10 mensilità! In tutti i casi sopra richiamati, va ricordato e ben compreso che si sta parlando di Licenziamenti individuali i quali poco o niente hanno a che fare con la produttività d'impresa o l'aumento dell'occupazione (su questo aspetto si rinvia alla Lettera dell'Istituto “La confindustria ci riprova” del 2002) ma che determinano solo sostituzione di personale e che anzi preludono ad una diminuzione complessiva degli occupati.
Sul piano del sostegno al reddito, rimandiamo a quanto la Cgil correttamente osserva. Qui ci interessa fermare, oltre la questione degli esodati che parla da sola, anche il fatto che con l'introduzione dell'ASPI si avrà: 1) la previsione di sopprimere la mobilità e la cassa disoccupazione straordinaria e ordinari con un ampliamento di platea ai soli APPRENDISTI (250.000 lavoratori) e una riduzione delle mensilità di copertura; 2) l'introduzione di un meccanismo assicurativo di “copertura” dei rischi di disoccupazione per il quale saranno i lavoratori e i datori di lavoro a trovare forme di accantonamento (FONDI) per la copertura di periodi di non lavoro. Si abbandona il concetto stesso di protezione sociale e lo si scarica su lavoratori e datori di lavoro (ma è facile immaginare come il tutto si tradurrà in solo carico per i lavoratori attraverso riduzioni di salari, diritti, ecc) in una forma assicurativa. Magari promettendo a qualche sindacato la possibilità di gestire questi fondi nel senso di una Bilateralità già noto e declinata dal precedente governo (Libro Verde di Sacconi).
Appare dunque chiaro che Monti persegue i seguenti obiettivi:
Una vera e propria restaurazione!
L'intera manovra si presenta quale tentativo di cancellazione della storia e del portato del movimento operaio italiano al progresso economico, sociale, politico, civile del paese degli ultimi 60 anni! Da questo punto di vista si rende certamente l'Italia “appetibile” alla penetrazione finanziaria europea! Si fa dell'Italia un terreno coloniale di conquista e di rapina! Muoiono qui tutte le belle parole sul rilancio del paese nel mondo, sulla ripresa e lo sviluppo, ecc, ecc. La chiamano Modernizzazione del Paese ma altro non è che la ristrutturazione economica dei grandi gruppi internazionali in Italia. E muore qui tutta la retorica sui 150 anni dello Stato Italiano che tanto ci ha deliziato negli ultimi mesi. Ora ben si comprende a cosa si è brindato, a cosa si vuole far riferimento! Lo Stato Giolittiano e non quello repubblicano! E a questa forma di Stato ben si attaglia lo Statuto Albertino piuttosto che la carta costituzionale del '48, che non a caso ci si riappresta a stravolgere con le modifiche relative al Pareggio di Bilancio, la (futura) riforma elettorale in senso Presidenzialista (ma già bocciata dal Referendum del 2006!), la riduzione di parlamentari e rappresentanti eletti. L'art. 18, da questo punto di vista, è la normale applicazione del principio di centralità del Lavoro, costituzionalmente previsto, nei luoghi della produzione ed è questo il senso della sua “modifica” che va letta assieme a tutte le altre modifiche della carta costituzionale. Solo da questo punto di vista le manovre del governo Monti (Pensioni, Mercato lavoro, stato sociale, ecc) assumono tutto il carico ideologico di un attacco feroce al lavoro, alla democrazia, alla sovranità di uno Stato. Coloro che più si fregiano di difendere e rappresentare gli interessi “veri” dello Stato italiano si dimostrano essere i suoi più accaniti liquidatori. Ed in questa opera di liquidazione dello stato nazionale repubblicano, dei suoi equilibri democratici, si finisce per scaraventare l'intero paese in un clima antidemocratico e pericoloso. L'attuale classe dirigente si assume, e fino in fondo, questa responsabilità.
Alcuni rapidi elementi per una riflessione comune.
Le manovre del governo Monti vanno lette all'interno del progetto di Unificazione del Mercato Europeo che la grande borghesia mette a punto con la Direttiva della C.E. dell'Ottobre 2010 in cui si determinano 50 proposizioni necessarie a quel fine. Da quelle proposizioni, che presuppongono l'applicazione della Bolkenstein, della Flexsecurity (Libro verde della commissione europea del 2007), della giurisprudenza europea in tema di diritti di sciopero e di trasferimento di ramo d'impresa (sentenze Viking, Laval, Ruffert, ecc), discendono poi le Direttive sulla Competitività, Europa Plus, Fiscal Compact, Six Pack, ecc. L'obiettivo è creare un MERCATO EUROPEO il più possibile omogeneo sotto il profilo della circolazione e utilizzo dei servizi (ovvero massiccio piano di privatizzazioni e liberalizzazioni), del lavoro, delle imprese (registro unico imprese europee, già recepito in Italia), del fisco ecc. imponendo in modo antidemocratico a tutti gli stati nazionali ben precise regole e doveri. Tale progetto viene tentato dopo il tonfo del progetto Europa Unita (Carta Costituzionale, Referendum, politica comune, ecc) e dentro lo scontro tra i grandi gruppi transnazionali per il ridisegno del controllo delle aree di mercato.
A completamento del quadro di analisi relativo al capitolo Mercato Unico Europeo, si veda anche la recente deliberazione del Consiglio Affari Generali/Commercio dell'Unione Europea che ha approvato, nella sessione del 14 dicembre 2011, l'avvio della definizione di quadro per un "globale e approfondito accordo di libero scambio" (DCFTA) con Egitto, Tunisia, Marocco e Giordania da realizzarsi nel 2012. Esiste un appello di varie Ong e sindacali per una campagna di opposizione a tale decisione da cui brevemente riportiamo:
“Soprattutto, le sottoscritte organizzazioni considerano che il modello di accordi di investimenti proposto dalla UE, finalizzato al solo scopo di fornire la massima protezione incondizionata agli investitori europei e agli investimenti all'estero, porta significative minacce ai processi democratici, alle politiche pubbliche e all'interesse pubblico, e non è uno strumento politico a sostegno di uno sviluppo sostenibile, produttivo e generatore di impiego”.
Il dato da fermare è l'espansione violenta del grande capitale finanziario (secondo l'accezione leniniana del termine: simbiosi fra capitale produttivo e capitale finanziario) in tutta l'area del Mediterraneo al cui interno l'Italia ricopre, ancora, un ruolo strategico.
É, insomma, aperta la spartizione dell'Area del Mediterraneo! E questa via passa obbligatoriamente per l'Italia! Da qui l'interesse della Commissione Europea, dei grandi gruppi transnazionale e degli Usa sul “futuro” dell'Italia; da qui il gran parlare dell'Italia nel futuro della UE!
In Italia, come in altri paesi, si va compiendo una pesante ristrutturazione economico-produttiva conseguente ad una diversa divisione internazionale del lavoro innescata dalla crisi. Una gran parte di attività produttive “vecchie” o rivolte a mercati “saturi” viene chiusa (soprattutto se ad alta intensità di manodopera non qualificata) e occorre fare in modo che i lavoratori di queste aziende si possano spostare con agilità o essere messi da parte senza lacci e laccioli sindacali e senza carichi per lo Stato. L'obiettivo è, cioè, portare a termine la ristrutturazione economico-produttiva del paese attraverso un preciso attacco alla Costituzione italiana e al lavoro. “Liquidazione produttiva” e “liquidazione politica” del paese vanno, dunque, lette assieme. Ostacolo a questo progetto è la stessa Costituzione italiana. Quel suo essere “per il Lavoro” fa da ostacolo ad una piena affermazione di logiche imperialistiche nel paese. La costituzione italiana, infatti, riconosce il Lavoro quale suo elemento fondante e lo fa in modo chiaro dando pieno riconoscimento giuridico-formale e sostanziale alle organizzazioni di lavoratori, di cui i sindacati -e segnatamente la Cgil- ne costituiscono oggi l'unica vera forma di organizzazione. É insomma il riconoscimento di questo “potere”, quello delle parti sociali, dei contrappesi al potere politico, che Monti vuole smontare. E lo fa in diversi modi. Innanzitutto reintroducendo due principi “antichi” della storia di questo paese: col sindacato non va discussa la parte politica delle misure che si assumono su lavoro, pensioni e fisco, ecc; il sindacato si ascolta ma poi si decide in Parlamento dal soli. Si nega qui il valore ed il ruolo stesso del sindacato confederale! Indebolendo fino alla morte il carattere politico-sindacale delle parti sociale e riducendolo a solo margine di categoria/aziendale, al cui interno, però, lo svuotamento dell'art. 18 ne annulla moltissima capacità di azione reale e di contrattazione.Si punta a superare quel dualismo di potere che la resistenza della Cgil aveva determinato nella sua azione di supplenza alle forze politiche di sinistra.
Un tale progetto richiede una risposta organica!
Il mondo del lavoro ha assoluta necessità di aprire un fronte autonomo di discussione e proposta. Bisogna aprire immediatamente un ampio dibattito sul Lavoro quale momento centrale della ripresa e dell'uscita dalla crisi economica in atto, quale alternativa concreta alla teoria della centralità d'impresa, ormai fallimentare. Bisogna rilanciare il ruolo del lavoro e dei lavoratori di tutte le nazioni quali soggetti forti di una diversa gestione economica e sociale in linea con i livelli scientifici e tecnologici oggi raggiunti. Tutte le forze della sinistra che hanno nel Lavoro il proprio riferimento devono convergere su questo punto con un proprio contributo e giungere a sintesi. I ritardi fin qui accumulati pesano come macigni e ipotecano le via di una reale ripresa democratica e di sviluppo per il paese e per i lavoratori. La sola diga rappresentata dalla Cgil non può più essere alibi per nessuno e non basta sostenere le lotte sindacali per modificare lo stato di cose esistenti.
Alcuni assi di ricerca:
Come Istituto di studi comunisti “Marx-Engels” rimettiamo al centro i temi dell'elaborato “Programma” (consultabile sul sito web) quale spunto e stimolo a questo dibattito e lanciamo la proposta di un “Forum del Lavoro” cui far partecipare Operai, Intellettuali, quadri sindacali e politici oltre la propria quotidiana attività di lavoro. Un “laboratorio” che tracci i nuovi orizzonti del Lavoro dove ciascuno possa sviluppare liberamente gli assi dei propri ragionamenti e delle proprie proposte. Un terreno di elaborazione comune e di costruzione di alternativa.